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Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: Filippo Bombonato
Titolo: Diamanti di eternità
Genere Narrativa
Lettori 3640 46 69
Diamanti di eternità
Sul fiume dove il tempo si fermò.

Fotografare il tempo.

Roberto non aveva mai scattato una foto alla mamma durante il suo ultimo anno di vita e ora se ne rammaricava. Avrebbe tanto voluto conservare nel portafoglio un ricordo del suo ultimo sorriso che, coraggioso come quello di un guerriero, sfidava flebo, punture, letti di ospedale e qualsiasi inquietante pronostico sussurrato dai dottori circa quanto ancora le rimaneva da vivere. Lei sorrideva per gli altri, anche se dentro si era spenta già da un pezzo e, per questo, quelle sue labbra che incorniciavano denti bianchissimi valevano molto più di qualsiasi spensierato sorriso.
Roberto aveva molte foto di lei negli anni d'oro, quando la sua salute sembrava di ferro e il suo sorriso non aveva nulla da nascondere. Eppure non avrebbero mai avuto lo stesso valore di quella maschera emaciata di chi sorride non più per sé stesso ma per chi gli sta attorno. Trascorreva intere giornate a passare in rassegna tutte le vecchie foto dall'album di famiglia e si fermava a scrutare, ipnotizzato, il viso della mamma, così dolce e pieno di amore.
Erano passati solo pochi mesi da che Lucia, madre di Roberto e Giulia, nonché moglie di un uomo pieno di vita come Giancarlo, si era spenta in fretta, lasciando un vuoto incolmabile nel cuore della famiglia Giacinti e di tutti quelli che avevano avuto la fortuna di conoscerla.
Roberto era un ragazzo tendenzialmente pessimista, un venticinquenne neolaureato in scienze della comunicazione, un giovane che avrebbe dovuto buttarsi a capofitto in progetti di vita, cercando di trovare la propria strada nel mondo del lavoro con tutto l'entusiasmo che la sua giovane età voleva riservargli.
Ciò nonostante, nelle ultime settimane dalla scomparsa della mamma, si trovava a vivere come un'ameba, passando le giornate tra il letto e il divano, chiedendosi per quale motivo l'essere umano fosse condannato a vivere molto meno delle sue stesse manifatture.
Amava la fotografia e, da che aveva cominciato a collezionare i primi scatti degni di nota, aveva iniziato a maturare un forte interesse per l'essere umano come soggetto da immortalare. I paesaggi naturali e gli oggetti inanimati non erano il suo forte, a meno che non fossero indissolubilmente legati a persone che amava. Preferiva fotografare la gente, giovani, anziani, bambini, adulti, donne e uomini: tutti, senza distinzione.
Percepiva il dovere di fermare i ricordi con la forza della fotografia e di regalare l'eternità ad un essere umano destinato a rimanere soltanto per un attimo, il tempo di un sorriso o di una lacrima. Aveva una missione ben precisa da compiere, un dovere che aveva iniziato a maturare prima ancora che la mamma se ne andasse, ossia fermare per sempre, in uno scatto fotografico, ciò che il tempo distrugge con troppa fretta.
Da quando, però, la mamma si era ammalata non c'era stato tempo per la fotografia. Tutta la famiglia, amici e parenti, era stata impegnata ad assisterla, a sostenerla fisicamente ed emotivamente. Mamma, però, era già forte di suo. Lo era sempre stata. Sapeva bene quali erano le sue priorità mentre era in vita, e le tenne ben chiare di fronte a sé sino all'ultimo respiro. La cosa più importante per lei era la serenità dei propri figli, e mai e poi mai avrebbe accettato di essere un peso per loro. Per questo fingeva una pace mentale che se n'era andata da un bel po', indossando una maschera quotidiana attraverso la quale poteva ancora fare il suo dovere di madre anche in un letto di ospedale.
Poco prima della sua morte, Roberto aveva acquistato una bellissima Canon Reflex e passava molto tempo a immortalare momenti quotidiani di vita familiare, cogliendo di sorpresa chiunque con foto a tradimento.
Un giorno entrò di soppiatto nella stanza della sorella Giulia, la quale si era appisolata seduta alla scrivania con la testa appoggiata sui libri di scuola. Si tolse le scarpe lasciandole sulla soglia della porta e, pattinando coi calzini sul lucido pavimento, le si avvicinò. Trattenendo il respiro scelse l'angolazione migliore.
Il suo obiettivo era cogliere quella smorfia tipica della sorella quando un sonno profondo la coglieva nei momenti e nelle posizioni più disparate. Con quelle sue labbra socchiuse assomigliava tanto ad un pesce che boccheggia a pelo d'acqua. I suoi occhi chiusi erano due linee scure come la notte e le sopracciglia sembravano voler implorare un po' di tregua da certi pensieri ossessivi.
Roberto sapeva bene che, in seguito alla morte della mamma, era tornata a credere che si potesse alleggerire il senso di colpa con acqua e sapone. La vedeva molte volte al giorno compiere lavaggi rituali. Negli ultimi mesi sembrava proprio non avere pace: le sue mani erano irritate e screpolate dai continui sfregamenti sotto l'acqua corrente. L'angoscia dovuta ai problemi familiari e personali si sovrapponeva allo stress in vista degli esami di maturità.
Così adagiava dolcemente il suo viso su un sublime canto della Divina Commedia. I suoi corti capelli neri le contornavano le guance, mentre una mano era delicatamente raccolta in un pugno chiuso, lasciando intravedere i segni dei rituali sotto l'acqua fredda. A giudizio di Roberto, quello sarebbe stato un ritratto fotografico meraviglioso. Con un solo scatto avrebbe potuto raccogliere per sempre elementi biografici caratteristici della sorella, in un momento di leggendario sforzo per alzare la testa e continuare a vivere.
Nonostante tutto, Giulia non aveva rinunciato allo studio metodico in vista degli esami. La sua sofferenza emotiva era chiara e ben visibile sul suo corpo: era dimagrita notevolmente. Nei suoi quarantacinque chili portava tutta la forza d'animo di chi vuol far dispetto ad una vita infausta e, anziché arrendersi, lotta per farle uno sberleffo.
Lame di luce dalla saracinesca illuminavano a sufficienza la camera, così Roberto poté rinunciare al fastidioso flash. Si protese col corpo al di sopra di quello della sorella cercando di fare meno rumore possibile.
Trovò la posizione ideale, raccogliendo con la sua Canon una porzione sufficientemente grande da raggruppare tutti gli elementi degni di essere immortalati. Sarebbe stato uno scatto perfetto, se non fosse stato che volle aggiustare meglio l'inquadratura: spostò un piede in avanti senza guardare e lo appoggiò noncurante sulla bretella dello zaino della sorella, comprimendo il calcagno su un duro pezzo di plastica. La reazione fu spontanea e incontrollabile: ritirò il piede e scivolò sulla schiena di Giulia, svegliandola e mandando a monte il suo progetto fotografico.
- Ma sei impazzito? Mi volevi uccidere? - urlò la giovane, ancora confusa da quel risveglio insolito.
- Scusa, sorellina, solamente che volevo... - balbettò Roberto.
- Sì, lo so cosa volevi. Tu e le tue fotografie state distruggendo anche quel po' di pace che si vive col contagocce. -
- Scusami tanto. Solamente che eri bellissima e... - . Fece un sospiro. - ...mi ricordavi tanto la mamma quando si addormentava sul tavolo della cucina. -
- Basta con questa storia! Vuoi capirla che la mamma se n'è andata e non tornerà mai più? - . Giulia si alzò dalla sedia e rivolse uno sguardo velenoso al fratello, il quale rimase in piedi impietrito da quella reazione isterica. - Ci ha lasciati soli: questa è la verità. Ci ha abbandonati senza una spiegazione, senza un niente. Però la vita va avanti e non ci possiamo fermare. Capito? - urlò. Subito dopo scoppiò in lacrime.
- Su dai, non volevo farti piangere. Ci faremo forza insieme. -
- E allora smettila con questi tuoi patetici ritratti fotografici. Cosa te ne torna in tasca? Vuoi approfittare della nostra disperazione per rendere la tua ‘arte' più ricca di pathos? Vuoi diventare un famoso fotografo della sventura, della disperazione, usandoci tutti come cavie? -
Roberto avrebbe voluto urlarle la propria innocenza, ma preferì lasciare che la frustrazione della sorella trovasse il suo sfogo. In fin dei conti ne aveva diritto. Era fin troppo brava a remare contro corrente, a continuare la sua vita nonostante la voglia di mollare tutto.
- Voglio che tu sappia che stimo molto la tua forza d'animo - le sussurrò dolcemente.
Giulia fece un profondo respiro e abbassò lo sguardo. Si grattava nervosamente con una mano il dorso dell'altra, fino a far sanguinare la pelle già vistosamente irritata.
- Lo so che stai soffrendo. Solamente che vorrei aiutarti a capire che non ne hai alcuna colpa - aggiunse.
- Che ne sai tu? -
- Una malattia come quella della mamma non è colpa di nessuno. Ha colto tutti di sorpresa, anche te. Perché dovresti sentirti colpevole? -
- Avrei dovuto fare il mio dovere mentre era ancora in vita. - . Mentre pronunciava quelle parole, Giulia si sedette sul suo letto singhiozzando.
- Se ti colpevolizzi per questo, come dovrei sentirmi io? -
- Tu almeno ti sei laureato. Io sono stata bocciata un anno. -
- Ah sì, bella laurea! Che soddisfazione avere un pezzo di carta e mille porte sbattute in faccia! -
- Ma se ti sei arreso al primo no! -
- Eh no, bella mia. Tu parli perché hai la bocca! Pensi che siano stati solo i tipi di quell'agenzia pubblicitaria a dirmi che non avevano bisogno? Non ti ricordi, o meglio non c'hai prestato attenzione, che ho inviato il curriculum a una compagnia telefonica, poi a due negozi di elettronica in centro e, infine, ti sei dimenticata di quel concorso comunale, al quale non mi diranno mai di sì perché non vado a votare? -
Improvvisamente Roberto cambiò atteggiamento. Si era liberato di quella maschera posticcia di fratello confortatore. Non che non provasse compassione per la sorella sofferente, ma lottava contro i suoi stessi sensi di colpa e in quell'istante lo stress e le parole aspre di Giulia fecero emergere le sue debolezze. Per poter rassicurare qualcuno bisogna saper mettere da parte le proprie preoccupazioni.
Roberto avrebbe voluto tanto essere d'aiuto ma a stento lo era per se stesso. Era combattuto. Arrivava a fine giornata quasi sempre sfinito dai sensi di colpa, soprattutto dovuti all'incapacità di fermare il tempo, le cose a lui care, le persone e gli elementi che definivano il suo mondo e, per estensione, il mondo intero.
Il tempo e l'energia sembravano non bastare per rendere immortali tutte le cose degradabili attraverso la fotografia. E poi le foto sarebbero state anche esse inesorabili vittime del tempo. Non sarebbe rimasto altro che un pezzo di carta o un semplice file digitale dal forte impatto emotivo. Ciò nonostante non si dava per vinto e la fotografia, seppur incapace di catturare completamente ciò che il tempo deteriora, rimaneva ancora la sua arma contro il potere ingiusto della limitazione temporale.
Si alzava sempre presto la mattina, prima di tutti gli altri, per il semplice fatto che si era fatto carico della responsabilità di fotografare il tempo. E il tempo non dorme mai.
Già ancor prima che la mamma se ne andasse, era solito svegliarsi nel cuore della notte per fotografare la famiglia intera mentre dormiva. Dopo che Lucia se n'era andata, quello era diventato il suo rituale compulsivo: ogni notte aspettava che tutti si fossero addormentati per poter sfoderare la sua arma contro il tempo, tirandola fuori da un cassetto mai del tutto chiuso.
Entrava in punta di piedi in quella che era stata la camera di mamma e papà; ora però vi trovava un uomo solo, abbandonatosi ad un sonno pesante e a un russare altrettanto prepotente. Non appena varcava la soglia, sentiva ancora l'odore della mamma. Allora, con il fiato in gola e cercando di trattenere tempeste di emozioni, scattava almeno una foto. Sapeva di non poter eccedere con gli scatti in quanto il flash avrebbe rischiato di svegliare papà. A Giancarlo non importava che il figlio scaricasse la sua ansia in quel modo. A volte (e questo Roberto lo sapeva) fingeva di dormire, con gli occhi socchiusi.
Giulia, invece, era alquanto infastidita da quelle foto a sorpresa e, a suo giudizio, senza senso. Il fratello era consapevole del rischio di poterla svegliare utilizzando il flash e dover così sopportare le sue sfuriate nel cuore della notte. Però aveva fatto un patto con se stesso: doveva fermare il tempo e raccogliere ogni momento in un lampo di luce. A volte rinunciava al flash, approfittando dell'illuminazione precaria proveniente dalla luce del bagno appositamente lasciata accesa.
Una notte, il fotografo volle osare: desiderava immortalare la sorella in tutta la sua innocente bellezza mentre dormiva. Il suo viso incorniciato da capelli scuri e reso aggraziato da una femminilità così pura, fragile e infantile era l'unica cosa della mamma che ancora si poteva ammirare dal vivo, toccare, sentir respirare. Accese il flash, trattenne il respiro e scattò una foto bella e sfuggevole come l'eternità. Quello fu l'unico portrait rubato che Giulia volle appendere in camera sua, e per il quale avrebbe persino tollerato le compulsioni fotografiche del fratello.
Giancarlo era entrato in un periodo di totale distacco emozionale. Era sempre stato un padre affettuoso, premuroso e loquace e ultimamente non parlava più. Il suo mezzo bicchiere di vino della sera era diventato un calice pieno e talvolta due. A volte lui e Roberto passavano serate in silenzio davanti ad una bottiglia di vino rosso. A differenza del padre, il quale faceva sparire in breve tempo il suo calice scintillante, Roberto lo sorseggiava, lo osservava brillare nel riflesso della luce soffusa della cucina. Ne lasciava sempre un poco sul fondo del bicchiere.
- Non mi piace questo vino - disse una sera.
Il padre stiracchiò un sorriso e gli chiese: - Perché allora lo bevi? -
- Non lo so. Forse perché me lo offri tu. -
- Puoi anche rifiutare. -
- Come potrei? -
Giancarlo fissava il figlio con lo sguardo offuscato da un bicchiere di troppo. Avrebbe voluto chiedergli il motivo di quella sua affermazione e, in un certo senso, sentiva che il figlio avrebbe voluto sentirselo domandare. Eppure rimase in silenzio, e Roberto non ebbe l'opportunità di dire qualcosa a cui teneva tanto.
Mentre Giancarlo si alzava da tavola per lasciarsi andare sul divano del soggiorno di fronte alla tv, il figlio rimaneva in cucina a fissare quell'ultimo sorso di vino rosso offertogli da papà: ne rimaneva un goccio che sporcava il bondo del bicchiere.
Una sera portò quest'ultimo alla bocca, ma si limitò ad accostarlo alle labbra: con gli occhi chiusi inalava l'odore inebriante e malinconico di quell'attimo di tempo che se ne stava lì ad accarezzare i suoi sensi, chissà per quanto ancora. Lui stesso non poteva sapere per quanto ancora: era tutto in precario equilibrio tra un attimo di esistenza e un inesorabile addio.
Ripose il bicchiere sul tavolo e se ne andò in camera sua. Aprì il cassetto in cerca della sua personale arma contro la noncuranza del tempo e tornò in cucina con la sua Canon. Scelta la giusta angolazione, immortalò quel sorso eterno, scintillante, precario e bellissimo come la vita: era un dono degradabile offertogli dal padre, e ora aveva finalmente ricevuto la sua porzione di immortalità.
Un pomeriggio, Giulia tornò da scuola esausta e, con un distaccato saluto a papà, attraversò il corridoio con in mente una sola cosa: il suo comodo letto ancora disfatto dalla svogliatezza di un'esistenza amorfa. Nel preciso istante in cui aprì la porta della sua camera, trovò il fratello che faceva scatti fotografici della stanza da diverse angolazioni. Lo sorprese in piedi sul suo letto in cerca della posizione perfetta. Voleva raccogliere più dettagli possibili in un unico scatto. Appena lo vide fu colta da isteria.
- Basta! - gridò, lanciandogli lo zaino dritto in faccia.
La macchina fotografica scivolò dalle mani del fratello e cadde sulla scrivania, fortunatamente senza alcun danno. Lui cadde sul letto picchiando la testa contro la testiera.
- Ma sei scema? - la rimbeccò, palpandosi la nuca in cerca di segnali di contusione.
- Non ti permetto più di invadere il mio spazio vitale! - continuò a gridare come una forsennata, per poi lanciarglisi in groppa e afferrarlo per il colletto della camicia. - Giuro che se ti trovo ancora a girare per camera mia con quell'affare, allora uno dei due se ne deve andare di qua. Capito? -
Roberto ammutolì. Tratteneva un sentimento talmente strano, paradossale e che non aveva mai provato prima: era arrabbiato con la vita, infastidito dall'inveire della sorella e, nel contempo, sentiva la frustrazione di chi vorrebbe consolare ma non riesce nemmeno a farlo nei confronti di se stesso.
Liberatosi della presenza opprimente della sorella, uscì dalla camera dando un calcio fortissimo al suo zaino di scuola.
Quest'ultimo sbattè violentemente contro la scrivania. Nella sua ritirata incontrò il padre, il quale, avendo udito urla e rumori, andava a controllare.
- Cosa succede? -
- Chiedilo alla principessa - gli rispose Roberto, con sarcastico riferimento alla sorella.
Poi uscì di casa sbattendo violentemente la porta. Nonostante la rabbia, non dimenticò di prendere con sé la sua Canon.
Andò a fotogafare un fiumiciattolo la cui acqua scorreva lenta e ristagnante. Lo immortalava in modo frenetico da diverse angolazioni. La giornata di sole favoriva la carica suggestiva di ciascun scatto: i raggi scintillavano come diamanti di eternità.
Terminata la sua battaglia contro il tempo, si rifugiò in un bar e ordinò un caffè. Si sedette al tavolo ed iniziò a scrivere poesie. L'avvenenza della barista, una ventenne dagli occhi scuri come la notte, gli ispirava versi particolarmente suggestivi. Si sentiva euforico. Si avvicinò al bancone e, con insolita disinvoltura, le porse il tovagliolo di carta su cui aveva sfogato la sua vena poetica.
- Mi hai fatto contemplare gioia e bellezza ancora una volta. È colpa tua se ho scritto queste cose. Perciò ti appartengono - le disse.
La barista non era nuova al flirtare dei clienti, ma l'approccio di quel giovane le sembrò decisamente insolito. I complimenti non la mettevano in imbarazzo, ma quella disinvoltura, accompagnata da un'aria innocente, la spiazzarono. Così si limitò ad alzare timidamente lo sguardo e a ringraziarlo. Ripensava all'espressione - ancora una volta - e cercava di capirne il significato. Non aveva mai incontrato quel ragazzo prima d'allora.
- Ti prego di dar loro un'occhiata prima di cestinarle - la supplicò.
Era incuriosita da quella creatura insolita: non aveva l'atteggiamento malizioso di chi ci sta provando. I suoi occhi sembravano più quelli di un bambino entusiasta di fare un regalo alla mamma. Era disinvolto e ingenuo. Lo trovava un tipo buffo. Fece un sospiro come se avesse voluto dire - ti accontento perché, in fondo, mi piaci - .
Iniziò a leggere le poesie tra una richiesta e l'altra dei clienti. Ci fu un attimo di respiro per lei. Così appoggiò i gomiti sul bancone del bar, stringendo tra le mani quel tovagliolo imbrattato di poesie: i capelli scuri e lisci le scendevano sul viso e lei li raccoglieva con una mano dietro l'orecchio. A un tratto si mise a ridere, in un primo momento tentando di trattenersi, per poi scoppiare in una sonora risata.
- Perché ridi? - le chiese Roberto.
Lei fece cenno con la mano di lasciar perdere. Continuò a leggere per poi farsi seria. Ripeteva a voce bassa ciò che leggeva: - Le farfalle volano per poco, ma non sanno che moriranno in un paio di settimane: per questo brillano di immortale bellezza. Gli uomini sanno che moriranno, e per questo bruciano tutto ciò che calpestano, decadendo giorno dopo giorno. -
Alzò gli occhi su Roberto, il quale aveva accantonato l'idea di voler sapere cosa l'avesse fatta ridere. Lei sembrava un po' divertita e un po' confusa. Poi, mentre si scambiavano sguardi fugaci, ricominciò a ridere e, abbassato nuovamente lo sguardo su quel pezzo di carta, cercò ancora una volta di trattenere una risata.
- Trovi le mie poesie buffe? -
- No, tutt'altro! -
La giovane si ricompose.
Evidentemente infastidito da quell'atteggiamento, quel - poeta della notte - lasciò i soldi sul bancone del bar e uscì.
- Aspetta! - gridò lei, ma inutilmente: lo strano individuo era sparito nel buio.
Roberto avrebbe dovuto sapere che a farla ridere fu l'inusuale contesto in cui espresse la sua vena poetica. E soprattutto la scelta bizzarra di abbozzare i suoi componimenti su un tovagliolino di carta. Evidentemente la barista non aveva mai incontrato un poeta così appassionato che le dedicava poesie da dietro il bancone di un bar. Roberto sentiva di avere perso il senso dell'umorismo: era diventato scontroso e permaloso.
Talvolta, soprattutto la sera, veniva travolto da una valanga di emozioni che definiva - pura eccitazione - : prendeva l'auto e sfrecciava per le strade della città ascoltando musica classica. Poi si rifugiava in un bar e lasciava che un brivido lungo la schiena lo cogliesse di sorpresa. Percepiva il forte bisogno di stare in mezzo alla gente pur non conoscendo nessuno. Sceglieva di rifugiarsi in nuovi posti, in pub mai frequentati prima.
Una sera si avvicinò ad una ragazza magra e timida che se ne stava in disparte: i suoi capelli erano cortissimi e non indossava né orecchini, né anelli e tantomeno piercing. La pelle del suo viso era tormentata da un acne camuffata da un evidente strato di fondotinta. Attorno a lei vi erano ragazze truccatissime che sfoggiavano scollature vistose e minigonne vertiginose. Il loro modo volgarmente ammiccante provocava nell'animo di Roberto un notevole disgusto. Rimise gli occhi su quella giovane che se ne stava in un angolo, ingnorata da tutti.
In preda a una paradossale e fortissima euforia, l'avvicinò ed esordì: - Scusa, ti ha mai detto nessuno che la tua bellezza è poesia? -
La musica era alta e contribuiva ad alleggerire l'imbarazzo della ragazza, la quale sgranò gli occhi per poi abbassarli e arrossire moltissimo. Le aveva urlato quella frase in un orecchio e, nonostante l'alto volume della musica, suonò chiara e inequivocabile.
- Che ci fa una ragazza come te qua dentro? - aggiunse.
Lei, col viso in fiamme, fece per andarsene, ma Roberto la pregò di restare solo un attimo ancora. La giovane trovò il coraggio di alzare lo sguardo su quello strano individuo. Era alquanto sospettosa. Provava uno strano senso di curiosità misto a paura.
- Scusa, non volevo essere invadente... -
Lei cercò di darsi un contegno, mentre tutt'attorno nessuno si era accorto di nulla.
- Non volevo importunarti - continuò Roberto, - ma non mi sono affatto pentito di averti urlato la verità. -
A un tratto lei balbettò: - È da una vita che mi sento ripetere che sono intelligente, brava a scuola, musona e antipatica. Ma nessuno, giuro, nessuno mi aveva mai detto che fossi... -
- Bellissima, sì. È la verità. Tu sei bellissima. Non devi aver paura di crederci e di ammetterlo! -
Abbassò lo sguardo e arrossì di nuovo. Roberto ebbe l'impressione che nel preciso istante in cui fece irruzione nel suo mondo, quella giovane in un angolino sentisse il bisogno di udire proprio quelle parole. Appena rialzò lo sguardo, poté leggere negli occhi di quello sconosciuto un'insolita genuinità. Gli unici ragazzi con cui aveva avuto a che fare li aveva trovati volgari e opportunisti.
- Come ti chiami? - le chiese.
- Debora. E tu? -
- Roberto! - . Fece una pausa. - Pensi che ci stia provando? -
- Non lo so. Dimmelo tu! -
- Ascolta, Debora, sento di dover vivere ogni singolo istante, di doverlo respirare, godere e, soprattutto, di dire quello che penso in questo preciso momento. - . Poi, in un alone di tristezza, ammise: - C'è qualcosa che mi insegue e che prima o poi mi raggiungerà. Devo correre più forte! -
La ragazza esibì uno sguardo sorpreso e inquieto. - Sarà mica malato di una grava malattia! - le balenò per la testa.
- Cos'è che ti fa sentire così? - gli chiese.
- Il fatto che non si possa fermare il tempo. -
Lo guardava con gli occhi di chi vorrebbe approfondire ma teme di subirne le conseguenze.
- E perché ti spaventa il tempo che passa? -
- Perché questa conversazione tra me e te domani non ci sarà più. -
- E chi te lo dice? -
- Perché? Pensi che ne rimarrà qualcosa? -
- Io sono convinta che il tempo sia fermo: siamo noi che ci spostiamo e decidiamo se vivere nel passato, nel presente o proiettati nel futuro. -
- Sì, però mia madre non l'ho potuta tenere con me! -
Roberto si mordeva un labbro.
Debora non riusciva a trovare le parole per gestire una situazione piombatale addosso nel modo più strano. Poi si fece coraggio e disse: - Credo non sia affatto facile affrontare la perdita di una persona... -
Quella frase rimase sospesa a mezz'aria, come se ci si dovesse aspettare una continuazione, o una sorta di insegnamento morale. Lui alzò lo sguardo in attesa che la portasse a termine, ma la giovane si rese conto di aver buttato lì uno stupido luogo comune. Quella che aveva di fronte era una realtà più grande di lei, più grande dell'essere umano.
- Debora, non m'importa del passato, non voglio più che conti per me. Mi hai detto che siamo noi a decidere in quale parte del tempo vivere, se nel passato, nel presente o nel futuro, giusto? -
Con un po' di esitazione dovuta alla responsabilità di aver pronunciato quelle parole, Debora annuì.
- Ecco, quello che conta per me è essere qui a parlare con te, ora, in questo eterno istante - continuò Roberto. - Credo che il tempo si sia fermato per davvero. -
Sorridendo, lei gli disse: - Il tempo si ferma quando viviamo momenti che contano veramente per noi, attimi che valgono la pena di essere vissuti. Rimarranno immortali come il nostro desiderio di non morire mai. Quello che non capisco è... - . Lasciò nuovamente la frase a metà.
Lui aveva già letto quella domanda negli occhi della giovane, e senza esitare rispose: - Sei tu che hai fermato il tempo, sì, la ragazza che sta parlando con me in questo preciso istante. È il nostro desiderio che non arrivi domani. È la presa di coscienza di entrambi del fatto che questa vita non ci basta. -
Ordinò un altro caffè.
- Ti sto infastidendo? -
- No, affatto! È solamente tutto così strano. Sto parlando con un perfetto sconosciuto, eppure mi sembra di conoscerlo da una vita - . Debora fece un sospiro. - E fra l'altro, è il primo ragazzo che mi considera ‘bella'! Come potrei sentirmi infastidita? Le tue parole mi han fatto sentire felice. -
Lui sorrise per poi farsi serio.
Vedendo che stava sprofondando in pensieri che lo tormentavano, aggiunse: - Scusa, non avrei dovuto dire certe cose... - (In realtà, non capiva che cosa avesse detto di sbagliato).
- Ma di che cosa ti scusi? Sto benissimo con te questa sera! -
Roberto tornò a sorridere.
Debora contraccambiò quel sorriso, evidentemente sollevata da un peso, e poi gli chiese: - Perché quella faccia improvvisamente seria, allora? Oh, scusa, avrei dovuto immaginarlo! -
- Immaginare cosa? No, non c'entra niente mia madre. -
- E allora che cosa ti ha rattristato? -
Roberto rimuginava, e quel suo evidente turbamento rendeva Debora inquieta.
- Perché hai detto ‘le tue parole mi han fatto sentire felice'? - le chiese.
- Perché pensavo ti avrebbe fatto piacere sapere che sono stata felice con te. -
- Ma per quale motivo parli al passato? -
La giovane era sempre più confusa.
- Stai dicendo ‘le tue parole mi han fatto sentire felice' e ‘sono stata felice' - farfugliò il giovane, in un evidente turbamento emotivo. - Solo un attimo prima sembrava che fossimo riusciti a fermare il tempo. Tu stessa mi dicesti che è fermo, che possiamo fermarlo. Ora lo vuoi lasciare andare? -
Lei arrossì molto, esitò e poi ammise: - No, non voglio lasciarlo andare! -
- Voglio vivere dove sei tu. Capisci? - proseguì Roberto. - Voglio che tu sia il mio presente. Sono stanco di usare verbi al passato. Almeno per quanto riguarda te non voglio più usarli. -
Debora provava sentimenti contrastanti: un misto di eccitazione e di paura. Raccolse i pensieri, fece un ampio respiro e confessò: - Roberto, ti conosco da poco meno di mezz'ora, mi dici cose che nessuno mi ha mai detto prima. Capisci la mia paura? -
- Certo che capisco. Talvolta, però, non ci si può proprio sbagliare. -
Lo guardava dritto nelle pupille degli occhi. Avrebbe tanto voluto credergli.
A un tratto un gruppo di amiche di Debora, sotto l'effetto di qualche bicchiere di troppo, la vide conversare con un ragazzo, evidentemente lusingata dalle sue attenzioni. Andarono dal dj e gli dissero di mettere su un lento di Elvis Presley, - Can't help falling in love - , e lo supplicarono di dedicare il brano a Debora a nome della sua nuova fiamma. La musica tecno sfumò e il dj si avvicinò al microfono dicendo: - Ora, ragazzi, abbiamo un momento speciale, una dedica d'amore da parte di... - . Puntando il dito verso Roberto, aspettò che quest'ultimo gli dicesse il suo nome. Il giovane, imbarazzato e sconcertato, glielo comunicò scandendo il labiale e il dj proseguì: - ...da parte di Roberto per Debora! Forza ragazzi, coppie consolidate e nuove fiamme vittime di uno sguardo complice. Su, tocca a voi ballare. Abbiamo un lentone questa sera, - Can't help falling in love - di Elvis. Mi raccomando, però, fate spazio a Debora e Roberto! -
Debora vide le sue amiche ridere accanto alla console del dj. Si sentì quasi svenire dal profondo imbarazzo. Roberto, ripresosi dal fuori programma, si fece coraggio e stette al gioco: prese la giovane per mano.
- Ma io non so ballare! - disse lei.
- Non importa. Neanch'io. Regalami l'immortalità di un momento. Seguimi! -
La faccia della giovane era in fiamme. La folla si fece da parte ed iniziò a schiamazzare, a battere i piedi sul pavimento, costringendo la coppia a raggiungere il centro della sala. Quando Roberto guidò la mano di Debora nei primi passi di un ballo lento, quel folto gruppo di giovani scoppiò in un applauso. Diverse coppie aspettarono che i due - rompessero il ghiaccio - per trovare a loro volta il coraggio di ballare.
All'iniziò Debora era rigidissima, ma lui continuò a sussurrarle: - Non importa chi ti guarda: ci siamo solo io e te. Non lasciarti giudicare da chi non ti conosce. Pensa solo al tempo che si è fermato per noi. - . Poi aggiunse: - Non sei affatto timida come pensavo! -
La giovane rideva per mitigare l'imbarazzo e si limitava a seguire i passi di lui. I due ragazzi erano vicinissimi. Debora tendeva a guardarsi la punta delle scarpe, mentre Roberto scrutava ininterrottamente il suo viso, fintantoché lei accettò quell'invito: alzò lo sguardo una volta per sempre e si lasciò penetrare l'anima.
Debora soffriva di una forma di timidezza un po' particolare: se avesse dovuto intervenire di sua spontanea volontà in un contesto sociale non avrebbe trovato la forza di farlo, in quanto non si sarebbe sentita legittimata dalle persone che le stavano attorno. Se invece fosse stata costretta da altri ad intervenire, il sentirsi chiamata in causa l'avrebbe sgravata da ogni responsabilità e conseguente ansia. In tal caso, qualora la sua performance fosse fallita si sarebbe sentita giustificata, in quanto non sarebbe stata lei a scegliere di esporsi. Talvolta, se chiamata in causa, era in grado di far divertire persino un pubblico sufficientemente numeroso. Qualora desiderasse intervenire di sua spontanea volontà subentrava una paralisi: il fiato corto le impediva di scandire le parole come avrebbe voluto e avrebbe finito per balbettare. Nell'istante in cui il dj la chiamò in causa per un ballo di fronte a tutti quei ragazzi, sentì il cuore saltarle in gola e una destabilizzante serie di capogiri. Ma nel momento in cui la folla la costrinse ad andare in pista a forza di schiamazzi, forte del fatto che Roberto la stava guidando per mano nel difficile compito, si sentì - legittimata - a ballare: quella tribù chiassosa lo voleva. Si rilassò quanto basta per riuscire a muovere i primi passi. Sulla romantica voce di Elvis, Roberto e Debora, due perfetti sconosciuti, si scrollarono di dosso il mal di vivere e fermarono il tempo per un lunghissimo attimo. Lui improvvisava un lento piuttosto dilettantesco ma dignitoso, e lei ne seguiva le movenze.
- Perdonami se le mie mani sudano - si scusò lei.
- Ah davvero? Non me ne ero accorto, e adesso che me lo fai notare sono ancora più felice! -
Debora sorrise, continuando quel ballo che sfidava ogni contesto temporale, lo spazio fisico e sociale.
- Perché ti rende felice? -
- Perché so di non essere il solo ad aver paura. -
- Io non so chi ti abbia mandato... - . Lasciò di nuovo la frase incompleta.
- Cosa intendi dire? -
- Non so se sto toccando il cielo, oppure se sono vittima di un complotto, forse di un sogno. -
- Shhh - la zittì dolcemente, avvicinando quel corpo minuto contro il suo.
Debora arrossì, abbassò gli occhi e li rialzò, perdendosi nello sguardo di un giovane maltrattato dall'esistenza eppure ancora pervaso da una gioia di vita quasi perversa. Chiuse gli occhi e dimenticò tutto quello che le stava attorno: c'era Elvis che cantava una canzone dolcissima e non la si poteva ignorare. Un perfetto sconosciuto che portava addosso l'empatia di un amico di sempre la stava accompagnando in movenze senza tempo, sussurrandole parole che nessuno le aveva mai detto prima. La paura della gente era un mostro preso a pugni e fiaccato quasi a morte, i suoi blocchi sociali si stavano sgretolando come un muro di cartapesta e persino la sua acne sembrava essere scomparsa.
Debora era solita ballare di tanto in tanto nella solitudine della sua camera, distante da occhi indiscreti, e si stupiva di quanto fosse gestibile la sua ansia in quel momento. Non avrebbe mai immaginato che in un normalissimo venerdì sera, nel pub che era solita frequentare con la speranza di vincere le sue paure sociali, si fossero improvvisamente spezzate le catene che la imbrigliavano ad una vita mediocre, fatta di nascondigli, opinioni espresse a metà e sorrisi di circostanza.
A un tratto la canzone sfumò e il pubblico proruppe in un applauso.
Roberto strinse Debora a sé e le sussurrò in un orecchio: - Io sono felice. E tu? -
- Sì, lo sono. Cos'è che ti rende tale? Il tempo che si è fermato? -
- Ho come la sensazione che tu lo sappia e che ti piaccia sentiretelo dire. -
Arrossì e poi, guardandolo negli occhi, gli rispose: - Sì, voglio sentirmelo dire! -
- Stasera ho ballato con una ragazza bellissima che mi ha fatto dimenticare lo scorrere del tempo. Era quello che desideravo più di ogni altra cosa. -
Debora abbassò nuovamente lo sguardo per poi rialzarlo timidamente su quello di lui. Rimase qualche secondo in silenzio, mentre Roberto scrutava ogni suo movimento.
- Anch'io sono felice - confessò la giovane. - Non mi sono mai sentita così in vita mia e credo che non potrò mai dimenticarlo! -
- Scusa ma con chi sei venuta? - le chiese Roberto mentre tornavano nella mischia.
- Ho la macchina e vengo quasi sempre da sola. -
- Hai qualche amico qui? -
- Beh, più che altro conoscenti. Per esempio, le ragazze che ci han fatto la sorpresa le conosco da tempo, ma sinceramente non le considero amiche, come anch'io non lo sono per loro. Talvolta sono socievoli e scherzose, altre volte mi snobbano. Non mi vogliono male, ma non sono nemmeno la loro confidente.
- Non hai qualcuno con cui ti confidi? -
- Avevo un'amica veramente speciale, ma si è trasferita in Australia con i suoi ed è difficile mantenere un'amicizia a distanza. -
Mentre pronunciava quelle parole, Debora fu catturata da un pensiero improvviso e invadente. Scoppiò a ridere e ad arrossire e poi disse: - Mamma mia, devo aver ballato in modo così buffo! -
- Ma che dici! Sei stata molto brava. Ti muovevi in modo elegante. -
- Elegante? Ma non hai sentito quante volte ti ho pestato piedi? -
- Sì, quello l'ho sentito! -
Risero come due matti.
- Mi rendo conto che sto dicendo un sacco di luoghi comuni - confessò Roberto, fattosi serio - ma devo ammettere che quando ridi sei ancora più bella di quello che già sei! -
- Temo che tu mi stia sopravvalutando. Non è possibile che tu sia l'unico che mi considera tale. - . Dopo un attimo di esitazione, gli chiese: - Perché mi trovi bella? Su, dimmi! -
La giovane si lasciò andare ad un giustificato autocompiacimento.
- Prima di tutto per come osservi il mondo attorno a te. -
- Più precisamente? -
- Mi piacciono i tuoi occhi. -
- Ma sono normalissimi, castani. Niente di speciale. -
- Eppure c'è una fiamma che brucia in essi. Vedo molte persone spente in questo mondo e, anche se ridono e schiamazzano, il loro sguardo è freddo come la morte, come la mancanza di sogni, di ideali. I tuoi, invece, sono direttamente collegati alla tua anima: non vi sono filtri tra quello che provi e il modo in cui osservi il mondo. Ti si può leggere dentro. -
- E cosa leggi nei miei occhi? -
- Leggo sincerità, vitalità, creatività e non poco tormento interiore. Tu suoni uno strumento, giusto? -
- Come fai a saperlo? - chiese sconcertata, per poi farsi seria e sospettosa. - Roberto, dimmi la verità: chi ti ha parlato di me? Chi ti ha mandato? Cosa vuoi da me? -
- Ehi, calma! Nessuno mi ha mai parlato di te e nessuno mi ha mandato. -
La giovane tornò a rilassarsi.
- L'ho capito da come picchiettavi con la punta delle dita sulla mia schiena, come a simulare l'accordo arpeggiato sulla tastiera di un pianoforte. -
Debora arrossì profondamente, seppur tradendo una punta di autocompiacimento.
- È inevitabile percepire la tua forte sensibilità espressiva - continuò Roberto. - L'ho letto nei tuoi occhi mentre mi parlavi del concetto del tempo che è fermo e di noi che decidiamo di vivere nel passato o nel presente. L'ho capito da come ti muovevi mentre ballavi, da come hai voluto liberarti delle catene della paura degli altri e dal modo in cui chiudevi gli occhi mentre Elvis cantava. -
- Accidenti, sono di fronte a uno che sa leggere la mente delle persone! -
- Solo quelle che mi interessano. Al momento so leggere te. -
Filippo Bombonato
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