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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Autore: Angelo Arlunno
Titolo: Quanto è vicina la felicità?
Genere Narrativa
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Quanto è vicina la felicità?
La Storia di qualsiasi uomo è una storia degna di essere raccontata. Ne è degna perché racchiude in sé momenti indimenticabili e unici, irripetibili. Momenti che hanno caratterizzato tanti sorrisi e troppi rimpianti che mai potranno ripetersi uguali, in nessun altro. Il piacere di questo narrato nasce proprio da questa convinzione. Rendere omaggio ad una vita vissuta con coraggio e determinazione, tra mille difficoltà, cose non capite, imprevisti, momenti belli e altri no, che segnano il viso, caratterizzano un'espressione, una ruga sul volto, uno sguardo, un modo di essere e di fare che piano si instilla in noi, rendendoci soli e unici interpreti di questa cosa che chiamiamo “vita”, e che tante volte ci affligge e altrettante ci rallegra, quasi senza rendercene conto. E che, giorno dopo giorno, passa e trascorre, lasciandoci dentro il desiderio assoluto di continuare, fino alla fine, fino a quando qualcosa di più grande di noi decide di interrompere l'ultimo progetto, l'ultima speranza, della quale nemmeno siamo coscienti sia davvero l'ultima. In questo lo Spirito è eterno, e mai si darà per vinto. E quando saremo vinti non sarà un successo della Morte, perché la Morte in nessun caso avrà mai una vittoria. Essa, finalmente, ci apparirà come un accidente, un accidente del caso, nemmeno troppo importante di fronte a tante difficoltà superate in precedenza, ben più complicate e difficili. Moriamo mille volte durante la nostra vita. Da feto, nasciamo. Da bambini diventiamo ragazzi. Da ragazzi diventiamo adulti. Da adulti diventiamo anziani, e ognuno di questi passaggi è una Morte di cosa eravamo prima, nemmeno ne conserviamo il ricordo nelle nostre azioni quotidiane, nei nostri modi di essere. Siamo trasformati, punto. Siamo altro da ciò che eravamo. E, mentre scrivo queste parole, sento la mano di Maria sulla spalla come a dirmi “Bravo, ragazzo, vedo che hai imparato. Hai colto nel segno. Bravo!”. Grazie Maria. Il tuo ricordo, e il tuo coraggio, non moriranno con me.

Parte Prima

“No! Niente di niente!
No! Non rimpiango niente!
Né il bene che mi hanno fatto
Né il male, tutto mi va bene uguale...
Con i miei ricordi ho acceso il fuoco
I miei dolori, i miei piaceri
Non ho più bisogno di loro”

Non, je ne regrette rien - Edith Piaf (1945)

Casa di Riposo “Le Terrazze sul Po”
Torino
Anno 2019

Spesso rinuncia al pasto. Non che non abbia appetito ma accade troppo spesso che in presenza di certi operatori non le venga servito ciò che desidera, in virtù di chissà quale presunta prescrizione medica sbattutale in faccia come norma indiscutibile della quale lei, secondo questi, non si rende conto data la sua età. Così lei si alza, prende il suo girello sul quale tiene le poche cose di cui ancora é in possesso, e si reca fiera nella sua stanza dove, seduta sul letto, rimugina per ore e ore sulla sua sorte maldestra e sulla maleducazione e la povertà intellettuale di certe persone. Non si arrabbia, o non lo dà a vedere, ma questi atteggiamenti penso le facciano male al cuore, soprattutto perché non ne comprende l'origine, gratuita, nei confronti di una donna anziana che, sopportata tutta la sua difficile vita, debba ancora tollerare gli atteggiamenti di tali incompetenti irrispettosi operatori d'assistenza. E' difficile la vita in un RSA, e lo è ancora di più se giungi in un posto come questo ancora integro, capace, nel pieno delle facoltà e desideroso di sopravvivere semplicemente alla tua vecchiaia, alle tue improrogabili, irrevocabili difficoltà ogni giorno più acute e severe. Ogni giorno più pesanti. Lentamente si corica, facendo attenzione a non provocarsi troppe dolorose fitte alla schiena, prende posizione e chissà perché proprio in quei momenti si ricorda bambina, ragazza, quando correva per i campi di una antica Grugliasco, ancora estrema periferia di quel piccolo centro che era Torino negli anni del dopoguerra.

La Storia non ha pietà di nessuno. Mille e mille persone derubate della propria infanzia, della gioventù vissuta di povere cose, eppure esilaranti e piene di significato per chi non aveva nient'altro, in nome di una guerra che produceva tutto intorno immagini di disastro, di abbandono, di macerie sulle quali ricostruire appariva a tutti una impresa impossibile. Troppo lavoro, troppo sforzo per spostare pochi sassi che avrebbero modificato solo una parte millesimale di un universo sconvolto, reso inabitabile dalle bombe che erano cadute e che ancora aspettavano, quelle inesplose, il malcapitato destinato a rendere loro la propria funzione assassina.
Maria (la chiamerò così perché è il nome di ogni donna in questa terra italiana). Maria per fortuna riuscì ad evitarle tutte e, per quanto non fosse possibile accorgersi di dove si trovassero, lei riuscì a diventare donna in questo inferno.

Trovata la posizione meno dolorosa piano si addormenta. E subito cominciano le immagini. Chissà perché quando si è anziani si sogna di più, e subito. Forse tutto il materiale di una vita torna subito alla mente non appena questa si rilassa un poco ed ha più spazio per espandersi non dovendo provvedere a tutte le innumerevoli difficoltà del corpo pesante. E porca miseria sogna subito immagini di gioventù come se il sonno volesse invitarla a rimanere, a non andare più via, restare in quel desiderio fantastico di rinascita. O di morte. Subito si scorge dietro alla tenda di casa, quella tenda verde scuro che separa il tinello dalla sua piccola camera dove dormiva da bimba, e da lì vede il volto preoccupato di suo padre che discute con la mamma delle difficoltà di quei giorni, e poi improvvisamente, compare la faccia di quell'ufficiale tedesco avvolto da quella sua terribile e sinistra uniforme, arrivato con i suoi per controllare quali e quante persone siano presenti in casa, con quel suo fare minaccioso che tanto la spaventava. Poi l'immagine cambia e si ritrova in una tabaccheria dove qualcuno le sta insegnando a girare le sigarette da rivendere... e lei sorride, si sente bene, è il suo mondo. Per quanto disastrato è un bellissimo mondo dove lei avverte tutta la magia dei suoi pochi anni...

“Maria... Maria...” La voce calda di una assistente la riporta alla realtà. E lei aprendo gli occhi subito si rende conto che è cambiato il turno, ora siamo di pomeriggio, l'operatrice di oggi è una persona dolce e gentile e lei ne è subito rincuorata. Si scalda il cuore quando siamo in compagnia di persone che sentiamo vicine, amiche. Capiamo immediatamente che le difficoltà saranno minori e anche la pesantezza dei novant'anni si fa più tollerabile, come ogni altra pesantezza in presenza di chi ne comprende i problemi. Novant'anni! Maria cancella in un soffio i sogni, vorrebbe alzarsi in un guizzo ma il corpo proprio non risponde, ha bisogno di un tempo diverso da quello che lei vorrebbe. E poi c'è sempre quel terribile male alla schiena...” Maria, è ora, se vuoi ti do una mano ad alzarti...” sussurra l'assistente. “Si cara...” le risponde con un sorriso, e subito aggiunge “...ma mi preparo da sola così mi tengo in forma... anche al letto...ci penso io...” L'assistente le fa un sorriso e si abbassa leggermente per sostenerla e metterla a sedere. “Sei sicura?” chiede. “Si si cara, avvicinami il girello, poi faccio da sola...” risponde. Con grazia l'assistente le infila le scarpe, si assicura che sia tutto a posto e poi rialzandosi “Allora ti aspetto in salone per la merenda...”
“Arrivo subito cara, vai pure, hai tante cose da fare...” Maria non vorrebbe mai disturbare, essere di peso, essere un ingombro, per nessuno...tanto meno per chi si rivolge a lei con grazia e gentilezza. Chi ha vissuto affrontando la fatica del vivere riconosce i problemi di chiunque, anche se infinitamente minori. Sono pur sempre difficoltà, e Maria vede bene coi suoi occhi che la gestione di tante persone, per chi ha scelto di occuparsene in un ambiente come questo, non è certo semplice. Rimasta sola si accorge di avere dormito un paio d'ore che le sono parse pochi minuti. Pochi meravigliosi minuti dove il suo dannato corpo rispondeva come voleva lei, dove la sua allegria era quella di tanti anni fa, dove tutto il mondo sembrava potesse essere afferrato tra le sue dita. Ora, guardandosi intorno, si accorge per l'ennesima volta che più nulla le appartiene: non le appartiene quel misero letto scomodo, quel mobile squallido e dozzinale dove ripone le sue poche cose, i suoi pochi abiti, quei pochi effetti personali che le hanno concesso, e guai a chi me li tocca! Ma sa già che nessuno ne avrà cura, se non poche persone tra tutte quelle che passano e che sostengono di occuparsi del suo benessere. Ma quale benessere! Se non fosse stato per quella sua mania di non voler disturbare nessuno, Maria, in un posto come questo, non sarebbe mai venuta...”. Ma mia figlia non può certo occuparsi di me...e non lo voglio...” si dice. Così piano risistema le lenzuola, prende la sua borsetta, la appoggia sul girello e con una leggera fitta alla schiena si avvia verso il salone.

(Da ragazzino frequentavo un Istituto Magistrale in quel di Torino. Un giorno, durante un compito in classe di Italiano, il classico 'Tema', ci fu un momento in cui l'insegnante si assentò perché chiamata dalla Direzione. Fu allora che tutti i miei compagni si misero a fare un gran casino: chi si rincorreva, chi lanciava cartacce, chi sbraitava, chi saltava sui banchi, tanto che dovette intervenire il bidello del quale, per altro, a nessuno importava. Però ad un certo punto io, infastidito da tutto quel rumore, presi un pallottolo di carta lanciato da qualcuno e in segno di rimprovero lo lanciai con sdegno verso un mio compagno particolarmente agitato. Caso volle che proprio in quell'istante l'insegnante rientrasse e, sorprendendomi in quel gesto, ritenesse opportuno attribuirmi la responsabilità del fragore e volle portarmi nell'ufficio del Preside per farmi rimproverare, nel silenzio totale dei miei vigliacchi compagni. E il Preside fu piuttosto severo. Diede immediatamente disposizione per un giorno di sospensione e nota sul diario che, a quei tempi, era una cosa abbastanza seria. Capisco che gli studenti di oggi possano riderne, ma a quei tempi la cosa era seria, soprattutto per genitori così attenti alla disciplina e al rispetto delle regole così com'erano allora i genitori. Io, rientrato in classe, presi posto al mio banco e tracciai una netta riga nera sulle parole del mio tema finora scritte e commentai l'accaduto. E scrissi: “...forse pensiamo di poter valutare le persone solo dalle apparenze? Forse crediamo di potere mettere insieme persone tanto diverse ed attribuire ad ognuna di queste la stessa responsabilità senza indagarne le motivazioni?”. O qualcosa del genere, il significato era comunque questo. Qualche giorno dopo l'insegnante restituì i compiti in classe con la votazione e io rimasi sorpreso. La valutazione del mio lavoro non aveva preso in considerazione il fatto che io fossi andato completamente fuori tema: sul mio componimento c'era semplicemente scritto “Non mi sembra che siate così diversi...”
Fu in quel momento, lo ricordo bene, che capii come funzionano le cose.)

Maria intanto piano piano va verso il salone per fare merenda. E, lungo il corridoio di pareti leggermente scrostate e dal colore sbiadito, attraversa piccole porte dove all'interno abitano altre persone, coricate sugli stessi anonimi letti, che custodiscono all'interno di dozzinali armadi gli stessi pochi effetti personali, solo ricordo di tutta una vita. Le sembra che questo leggero squallore sia quasi voluto, per un istante le viene da pensare che un certo stato di abbandono e di incuria verso la bellezza degli ambienti sia quasi un avvertimento, un monito a non affezionarsi troppo, tanto ci si trova in quel luogo solo di passaggio. Lungo o breve che sia si tratta solamente di un passaggio temporaneo che serve a condurre tutti verso la sola destinazione possibile e prevista.
Non è il caso d'aver cura di qualcosa che non ti apparterrà mai. E poi la maggioranza di quelli che ci abitano hanno già tanto da fare coi propri ricordi e le proprie magagne per stare lì a far caso a questi particolari estetici. Ormai ci si sente di essere solo più degli involucri, involucri palpitanti e tremanti, indotti ad una routine quotidiana di cose sempre uguali, sempre le stesse. Di atteggiamenti freddi e distaccati da parte di coloro che passano di qua solo per svolgere un mestiere, ai quali non frega nulla del fatto che questi “involucri” siano ancora, e ora più che mai, persone piene di emozioni, di rimpianti, di cose care dovute abbandonare: oggetti, persone, abitudini. Sono davvero pochi quelli che sembrano ricordarsene. Che viene quasi da chiedersi: ma che senso hanno avuto tutti gli sforzi passati? Tutti i tentativi di dignità di fronte alle sventure, tutto il lavoro fatto per proteggere la famiglia, i figli, se stessi dalle avversità di questo mondo infame, da questa vita impietosa? Che ci faccio qui? Come sono capitata qui?

Alla fine del corridoio si apre un grande salone, con diversi tavoli disposti più o meno razionalmente, seguendo una logica istituzionale, non certo il senso del bello e gradevole alla vista. Tutti con la stessa tovaglia e sopra questa la stessa bottiglia d'acqua, lo stesso bicchiere. Ad ognuno di questi si appoggia un'anima, un altro involucro palpitante e tremante, silenzioso e immerso negli stessi pensieri di Maria, con lo sguardo fisso nel vuoto. Si assomigliano tutte, le RSA. Può variare leggermente la geometria degli spazi, ma alla fine non c'è differenza, non c'è alternativa al contenuto, non sono posti di speranza né di progetto. Sono enormi sale d'attesa della stazione, piene di sconosciuti, fatte di fredde panche di legno consumato sulle quali sedersi ad aspettare un treno, un treno che questa volta è davvero l'ultimo.

“Buongiorno Maria!” la distrae l'assistente gentile. Per fortuna c'è lei, oggi è una buona giornata.


Si sta spegnendo, nel silenzio assoluto, una generazione di eroi, la generazione del “bianco e nero”, che ha saputo immaginare tutti i colori del mondo attraverso queste due basilari sfumature. Una generazione che ha saputo ipotizzare e volere fortemente un futuro nonostante il disastro in mezzo al quale era costretta a vivere.

1940-1945
Torino
Gli anni della guerra

Dopo il discorso del Duce, il 10 Giugno del 1940 dal balcone di Palazzo Venezia, a Roma, l'Italia aveva assunto una posizione ostile e dichiaratamente di guerra nei confronti di Francia, Inghilterra e tutti quei paesi che si opponevano alla avanzata del suo amico -come ebbe a definirlo Mussolini- Adolf Hitler. E così era cominciato l'incubo della devastazione. Il Regime aveva raffazzonato un esercito di poveracci mal vestiti e inadeguati, armati di artiglieria vecchia di un secolo, inesperto e non preparato alle cose di guerra, una guerra violenta e totale, contando sul fatto che, alleati alla grande potenza germanica, si sarebbe trattato di uno scontro veloce, di breve durata.
- Ho bisogno soltanto di qualche migliaio di morti - , disse Mussolini, - per potermi sedere da ex-belligerante al tavolo delle trattative - . Così la mattina del 21 giugno 1940 l'esercito italiano attaccò le posizioni francesi lungo il confine alpino che dalla Liguria sale fino alla Svizzera. Era un assalto che il dittatore italiano aveva ordinato di lanciare in fretta, poiché temeva che il conflitto finisse prima che il suo esercito riuscisse a ottenere una singola vittoria. Restava però il problema principale: l'esercito italiano era impreparato alla guerra. Da paese che si era dimostrato capace di poter mediare tra il dittatore tedesco e le democrazie occidentali la sua improvvisa e totale appartenenza al fronte germanico avrebbe scatenato a breve la reazione degli oppositori. Primi tra tutti gli Inglesi. L'Italia divenne teatro di scontri violentissimi. Dal 1940 al 1945 Torino venne attaccata dai bombardieri britannici, e dal 1943 anche dai loro alleati americani, più di cento volte. La notte tra l'11 e il 12 giugno 1940 si abbatte su Torino la prima incursione. Le bombe caddero sulla città colpendo, oltre alle fabbriche, anche case, edifici pubblici, monumenti e strade, provocando centinaia di morti tra la popolazione civile. I lunghi, enormi fasci di luce della misera contraerea italiana percorrevano il cielo cercando di individuare i velivoli nemici in quelle notti nere come la pece nelle quali venivano sferrati gli attacchi, ma sembrava di voler acchiappare moscerini nella vastità dell'orizzonte scuro. Piazza Statuto fu quasi rasa al suolo. E così il Lingotto e Mirafiori, dove risiedevano le importanti fabbriche FIAT, obiettivo centrale e cento volte colpito. E ancora Corso Francia, Corso Regio Parco e la Manifattura Tabacchi, gli ospedali, i monumenti, le Chiese. Fra gli episodi si ricorda il bombardamento della chiesa di Madonna di Campagna, nel cui scantinato si erano rifugiati, in gran numero, gli abitanti della zona. Molte vittime furono estratte dalle cantine dell'edificio, situato vicino alla chiesa di San Gioacchino. In quelle notti furono colpiti il Duomo, la chiesa di Santa Teresa, la chiesa di San Domenico e ancora molte altre. Intere strade - la cui valenza strategica era nulla - furono devastate, come via Garibaldi e via Po. Una notte fu colpito anche il Cimitero Generale provocando la devastazione di molte tombe. La cronaca di quegli eventi fu minima, visto che i giornali non uscivano per alcuni giorni, e ci volle parecchio tempo per rendersi conto dell'entità dei disastri. Gli abitanti cominciarono a sfollare, a riversarsi nelle campagne, proprio come accadde alla famiglia di Maria, la famiglia Bernandi, e ai Casatorre che, avendo la possibilità di rifugiarsi nelle vecchie proprietà dei genitori -situate presso Grugliasco- ne approfittarono per rifugiarcisi, trovandosi così a vivere vicine, nel tentativo di sfuggire a quella realtà. Una realtà di macerie, colonne di fumo grigio delle case distrutte che raggiungevano un'altezza di qualche chilometro, delle strade divelte e impraticabili, di fango e di pozze d'acqua melmosa dove una bomba aveva provocato una voragine magari portandosi via qualche malcapitato. Di corpi senza vita abbandonati sul selciato perché nessuno era ancora riuscito ad occuparsene per darne dignitosa sepoltura. Di alimenti calmierati e di tessera del pane. Di paura e buio quasi medievale, scarpe rotte e ricucite all'infinito, abiti sgualciti e lisi, rattoppati fino all'impossibile. Di lunghe sere dove i fortunati possessori di una radio si sintonizzavano su canali vietati dal regime, spesso invitando qualche vicino per commentare insieme gli accadimenti, sperando di riuscire ad immaginare se il proprio figlio, padre, zio, nipote sarebbe mai riuscito a tornare. Di sirene dal suono forte e inquietante che riempivano le strade di angoscia mentre tutti correvano ai sempre troppo pochi rifugi situati sotto le piazze, nelle cantine dei poveri palazzi, nei sotterranei delle chiese, cercando di sfuggire alle incursioni aeree di un maledetto nemico temuto, odiato. E ognuno portava con sé qualcosa da offrire perché poteva accadere di dover rimanere nascosti molte ore mentre fuori si scatenava l'inferno. Le nonne si portavano appresso il lavoro a maglia, le mogli si facevano coraggio rincuorandosi a vicenda “Vedrai tornerà...” si dicevano, “Vedrai presto tutto sarà finito...” e si stringevano mentre le pareti vibravano sotto le esplosioni, vibrava la pelle, le ossa, il cuore. Solo i piccoli, e Maria era una di questi, parevano affrontare tutto come fosse un gioco, tanto che a volte correre al rifugio poteva persino diventare qualcosa di divertente. Nonna Luigina, quella del terzo piano del palazzo di fronte, non si sa come, aveva sempre con sè qualche galletta dolce e friabile che offriva ai ragazzini e ai bimbi che, golosi, la aspettavano con ansia. Maria adorava quei biscotti, avevano un sapore favoloso, scrocchiavano sotto i denti e rilasciavano una dolcezza e una intensità di sapore che ancora oggi le si illuminano gli occhi quando ne parla. Con l'irruenza tipica dei bimbi, finito uno ne desiderava immediatamente un altro e tornava a tirar la gonna di nonna Luigina, donna allegra e di buon carattere, chiedendone ancora. Allora interveniva Elvira, sua sorella più grande di sei anni a placarle l'animo. “Maria, ora basta!” le diceva prendendola per la vita e trascinandola a sé con ferma dolcezza. “Non disturbare più la nonna, e poi ci sono ancora bambini che non ne hanno avuto nemmeno uno” insisteva. La prendeva tra le braccia e la portava un po' più distante, cercando di distoglierla da quel sapore irresistibile. Elvira era la sua bellissima sorella, con lunghi morbidi capelli castani che le arrivavano alle spalle, due bellissimi occhi marrone chiaro e un sorriso meraviglioso. Maria forse l'amava più della mamma perché era sempre con lei, giocava con lei e avrebbe voluto assomigliarle non appena diventata grande...un poco meno ultimamente. A dire la verità Elvira si era fatta donna e tendeva a non avere più molto tempo per lei...
Spesso, dopo i fragori più forti e temibili, si intonavano canzoni che tutti cantavano, per darsi coraggio, per non spaventare i bambini... Soltanto nelle avversità l'essere umano riesce a dare il meglio di sé. Questo sarebbe stato sotto gli occhi di tutti, molti anni dopo. Le difficoltà creano cuori generosi, animi disponibili e pronti ad offrirsi per sopportare insieme una terribile pena, livelli di condivisione oggi impensabili, empatia oggi sconosciuta se non da poche persone.

Si sta spegnendo, nel silenzio più assoluto, una generazione che ha saputo trasformare l'odio in rinascita, in speranza, in ricostruzione, in fiducia nel domani, in forza d'animo e coraggio.
Angelo Arlunno
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