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Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Stefania Manservigi
Titolo: L'amore alla fine del mondo
Genere Romance
Lettori 2337 4 7
L'amore alla fine del mondo
Scegliere di vivere in periferia, per alcuni, non è una scelta ma una necessità. Soprattutto quando vivi in una grande città come Roma, dove tutti sognano e rincorrono la bellezza, e tu ti devi accontentare di un casermone di cemento in un quartiere dormitorio, dove i palazzi sono così fitti che a volte si fa fatica anche a scorgere il cielo.
E tutti sognano di scappare da lì. Si aggrappano a quel piccolo pezzo di cielo al termine di una giornata ricca di caos e rumore e sperano, un giorno, di conquistare il loro posto nel mondo.

Per Davide, invece, quel tratto di periferia sotto quel pezzo rubato di cielo era tutto quello che una persona può chiamare casa. E, a suo modo, era convinto di amarlo.

Forse non aveva ambizioni, come gli ripeteva costantemente suo padre. Forse preferiva per natura vivere alla giornata, o forse aveva semplicemente ancora una sana dose di incoscienza, con quei suoi 20 anni giovani sulle spalle che ancora non aveva capito del tutto. Ma lui apriva la finestra della camera, si lasciava accarezzare da quell'aria così morbida e leggera mentre si accendeva una sigaretta, in bilico sul davanzale. Seguiva il fumo volare in alto, perdersi nel blu scuro della notte, dietro un altro tetto di cemento. E, proprio in quel momento, si sentiva vivo. E non capiva cosa ci potesse essere di sbagliato, in tutto quello.

Miriam era stata obbligata a crescere troppo in fretta, dalla vita. O forse era lei che si era obbligata a farlo. D'altronde, con la sua anima inquieta e il suo spirito ribelle, non si era mai sentita a posto da nessuna parte.
Aveva sempre fatto e disfatto, senza accontentarsi mai. E senza trovare mai davvero la quadra a nulla.
Era nata e cresciuta lì. In quel posto dove le notti erano senza stelle. E questa cosa non l'aveva mai capita. - Io voglio vedere le stelle - . Aveva sempre pensato.
E così si era impegnata fin da piccola per andarle a rincorrere quelle stelle che la vita, per qualche casualità che nessuno aveva mai saputo spiegarle, le aveva negato. Aveva studiato, era stata sempre la prima della classe. Ai giochi in cortile con gli altri bambini della sua età aveva sempre preferito i pomeriggi nella sua piccola cameretta a studiare le mappe del cielo. A vedere che le stelle fossero proprio lì, e non solo un sogno immaginario.
Per un compleanno, con i risparmi di tanti mesi di sacrifici, suo padre le aveva comprato un telescopio. La sua gioia incontenibile venne subito smorzata dalla crudele realtà quando la sera stessa decise di provarlo, senza risultato.
- Papà non funziona -
- Come non funziona, amore? Certo che funziona -
Lei lo aveva guardato sconsolata, aveva guardato quelle sue rughe buone che parlavano di quegli anni di fatica e tentativi di regalarle una vita più conforme alle sue aspettative.
- Hai ragione, è che qui non ci sono le stelle - aveva detto, alzando le spalle e tornando in camera sua, a puntare lo sguardo su quegli adesivi luminosi che aveva attaccato al soffitto, per continuare a sognare.

Allora una sera d'estate suo padre l'aveva caricata in macchina, aveva guidato tra le strade stranamente silenziose di una città svuotata dal caldo e dalle ferie, e l'aveva portata al Gianicolo, in un piccolo anfiteatro dove d'estate facevano ancora qualche spettacolo, da cui si potevano vedere le luci di Roma e la maestosità di quel cielo che le faceva da tetto silenzioso.
Avevano puntato il telescopio, e avevano fatto tardi a scrutare quei puntini luminosi, inventando nomi e storie.
- Papà ci andremo mai su una stella? -
- Certo amore, perché no. Presto o tardi ci andremo. La sai una cosa? Cerchiamo la stella più luminosa. Sarà la nostra stella. Io un giorno ti aspetterò lì - .

Una sera Davide salendo sul terrazzo del palazzo aveva trovato Miriam. Se ne stava accovacciata in un angolo, le ginocchia al petto, a guardare il cielo.
Miriam abitava in un appartamento al secondo piano. Avevano giocato insieme quando erano piccoli, con gli altri bambini del cortile. Quelle poche volte che Miriam aveva deciso di stare con loro. Era sempre stata strana. Diversa. Aveva sempre avuto una marcia in più rispetto a loro. A volte era sembrato a tutti che lei venisse da lontano.
E in effetti poi Miriam se n'era andata, lontano. Aveva preso altri giri.
D'altronde lei aveva sempre cercato di scappare dalla periferia, di volare alto, anche quando la vita le aveva spezzato le ali. Era più grande di lui, e questa cosa si era sempre notata.
A pensarci bene gli aveva sempre fatto un po' di soggezione. Lei e quel suo viso perfetto, che sembrava rubato a una bambola, e quegli occhi scuri e profondi che erano in grado di scrutarti e farti sentire non all'altezza delle loro aspettative. Erano occhi che sembravano aver visto verità che loro non potevano capire. E, forse per quello, a un certo punto non l'avevano più invitata ad uscire. Ognuno aveva preso la sua strada. E loro non avevano più saputo dove fosse finita, e non se ne erano nemmeno più curati, a dire la verità.
Eppure era lì. Stretta in un angolo, con la gonna del vestito a fiori che scivolava sulla pelle chiara, resa ancora più chiara da quella notte senza luna.
Sembrava aver vissuto tante di quelle vite nascoste e sconosciute. Per poi tornare lì? Chissà...

Si erano seduti vicini, in silenzio. In fondo non si conoscevano quasi per nulla. E quel terrazzo era troppo piccolo, forse, per contenere quelle due vite così diverse tra loro.
Davide aveva iniziato a rollare uno spinello, era salito lì sopra per scappare dalle urla dei suoi genitori. Due separati in casa che scaricavano su di lui le frustrazioni dei loro fallimenti. Cercava di scappare dalle ansie di futuro di suo padre che ogni giorno gli ripeteva che doveva studiare per andarsene da lì. Ma Davide non amava studiare mentre quel posto, invece, gli piaceva. Magari traboccava di speranze infrante, sogni spezzati, promesse disattese. Di fatica e rimpianti. Ma a lui piaceva così.

- Ti dispiace se fumo? - le aveva chiesto quindi, una volta finito tutto.
Miriam aveva scrollato la testa, continuando a guardare il cielo nero della notte. Davanti a loro solo una distesa di fabbricati di cemento e case popolari.

- Che fai qui? - aveva cercato di rompere il ghiaccio Davide, dopo aver inspirato forte la sua boccata di ossigeno. Era in riserva. Da molto tempo.

- Guardo il cielo - aveva detto la ragazza, con una voce quasi impercettibile.

Suo padre era morto, qualche mese prima. Un infarto, quel suo cuore buono e pieno di cicatrici non aveva retto più al peso di tutta quella fatica senza via d'uscita.
E così da quando suo padre se n'era andato, Miriam saliva sul terrazzo a cercarlo. Era convinta che se ne stesse su una stella, su quella loro stella che una notte di tanti anni prima avevano cercato insieme, e che se l'avesse trovato avrebbe potuto parlarci nuovamente. Perché lui gliel'aveva promesso. Che l'avrebbe aspettata lì.
E d'altronde suo padre se n'era andato senza salutarla. Lei che aveva indossato una vita diversa. Che un giorno aveva deciso di lasciare quel pezzo di periferia, pagarsi una stanza con un'amica, studiare e lavorare. Perché quel cielo senza stelle le stava troppo stretto. Perché voleva di più.
Ma adesso, dopo quel giro infinito, era di nuovo lì.
Così la notte aspettava che la madre se ne andasse a letto e spegnesse la tv, e poi se ne usciva di nascosto ad aspettare l'alba su quel terrazzo.
Aveva messo da parte tutto. Gli studi, le amicizie, l'amore. La casa che aveva appena affittato con un'amica in città, a fatica. Era tornata a vivere lì, in quel posto che aveva sempre odiato. Ma il suo scopo, ormai, era diventato cercare.

E così non si sa perché, e per quale strano incastro del destino, Davide e Miriam avevano iniziato ad aspettare l'alba insieme, ogni notte. Che, in fondo, in due restare svegli sembrava più facile.
Era diventato un appuntamento silenzioso e non concordato.
Salivano le scalette di nascosto e si ritrovavano lì, ogni sera. Tra i panni stesi e le antenne televisive. Appena le luci del palazzo si spegnevano, lasciando posto ai sogni, iniziava la loro notte, di chi forse ai sogni non ci credeva più del tutto.
La maggior parte del tempo stavano in silenzio. Davide guardava la nuvola di fumo della sua sigaretta volare in alto, era il suo rituale di serenità. Non sapeva perché. Forse perché sapeva che lui così in alto non ci sarebbe mai volato. Poi ogni tanto lanciava qualche sguardo a Miriam, che ogni notte si accovacciava nel suo angolino, e fissava lo sguardo sul cielo, senza dire una parola. La guardava, e pensava alla bambina fiera che era stata. Non la riconosceva. Sembrava così fragile, così diversa. Quanta vita doveva averla attraversata dentro, lontano da lì?
Stefania Manservigi
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