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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: Gian Paolo Galloni
Titolo: Quattro passi sotto la pioggia
Genere Thriller
Lettori 2873 8 13
Quattro passi sotto la pioggia
L'ultimo giorno.

‘Ce l'ho fatta!'
L'avevo pensato non appena le nebbie di un risveglio per me sempre più impegnativo si erano diradate ed ero riuscito a rendermi conto di che giorno fosse. Era quello nel quale Anna, mia figlia, avrebbe compiuto diciott'anni. Quanto l'avevo atteso, pur senza nutrire grandi speranze di arrivarci, ma c'avevo messo tutto me stesso per riuscirci... anche quello che non avevo. E che sollievo. Che gioia indescrivibile.
Anna era diventata adulta. Era una donna ed ero riuscito ad accompagnarla nel difficile cammino di un'infanzia e di un'adolescenza senza una mamma al suo fianco. La colpa era mia! Né aveva avuto sorelle o fratelli, zii o nonni. Nessun famigliare. Solo me. E io ero uno straccio... un rottame d'uomo, anche se nel momento più disperato avevo insperatamente incontrato un paio di angeli a darci una mano.
Alla fine mi ero anche ammalato, certamente prima di mal di vivere e poi di quello che mi aveva letteralmente divorato il fisico senza alcuna pietà. Un male che finalmente potevo lasciar vincere. Non avevo più voglia di lottare. Non avevo più energie e non aveva nemmeno più senso cercarne altre. Avevo infatti raggiunto il mio solo e unico scopo, anche se più di qualche volta avevo temuto di non farcela.
‘Oggi è il mio ultimo giorno. Lo sento e sono pronto! Anna saprà anche la verità sulla sua famiglia.' Mi era pesato infinitamente nascondergliela così a lungo, ma era una realtà terribile da conoscere e da accettare anche per un adulto. Non potevo quindi rivelarla ad una bambina e nemmeno poi ad una ragazzina.
Celarle qualcosa era stato però un fardello tremendo che per me si era aggiunto a quello che già gravava da tempo sulle mie fragili spalle. Ma dovevo e volevo reggerlo. E c'ero riuscito. Nel regalo che avrebbe aperto per il suo compleanno c'era un libro che aveva visto tante volte in casa. Forse l'aveva già scartato, senza che me ne accorgessi. Non mi accorgevo più di molto ormai...
Era un libro che conosceva bene. Sulle prime non avrebbe capito, pensavo, ma la dedica che vi avrebbe trovato all'interno riportava poche parole che le avrebbero spiegato tutto:

“Amore mio più grande, questa storia
è quella della tua famiglia!”

Quanta inattesa pace mi stava dando pensarlo. Mi si erano velati gli occhi però, quando avevo ricordato ancora una volta quello che avevo passato e fatto passare alle persone a me più care. Più care pure di me stesso. Qualcosa mi aveva mangiato dentro infatti molto più di quanto avesse fatto la malattia che stava portandosi via ciò che ormai era solamente il guscio di un'anima lacerata.
‘Alex, tra poco saremo di nuovo insieme.'
L'avevo pensato con una mano in quelle di Anna, che mi osservava con la sua solita espressione di preoccupato amore ed ero morto così, sorridendo in un breve ma anche eterno attimo di un'immensa serenità che almeno il quel mio ultimo momento mi ero dimenticato di... non meritare!
PROLOGO - Beirut, Libano, nel 1982


Dicono che il tempo sembri trascorrere un millesimo di secondo per volta, quando stai per lasciarci la pelle, o almeno così era stato per me nell'istante in cui avevo scorto con la coda dell'occhio un militante, forse già di Hezbollah (non lo sapevo e poi non avevo voluto saperlo), che mi aveva inquadrato nel mirino del suo Kalashnikov. Era a non più di trenta metri da me e avrei persino giurato di vedere il suo dito indice iniziare a tirare il grilletto. Allo stesso tempo avevo anche già capito che non avrei purtroppo avuto modo né di sollevare la mia arma verso di lui, né di scansare il colpo.
Quell'eterno millesimo di secondo mi aveva lasciato quindi pure lo spazio temporale necessario a pensare a quanto stupido fosse crepare così giovane in un luogo dimenticato da Dio. Luogo che peraltro nulla aveva a che vedere con me, né c'entrava alcunché con la vita di qualcuno al mio paese, anzi... nemmeno avevo capito fino in fondo le motivazioni dell'una o dell'altra fazione che vi si stavano fronteggiando in una guerra fratricida. Onestamente, quanto superficialmente, non mi ero neanche preoccupato di informarmi meglio su ragioni che andavano ben al di là della mia capacità di comprensione.
Ma allora perché ero lì? Noia? Forse. Voglia di avventura? Questa sì, anche se era più uno sfrontato desiderio di fare cose abbastanza prive di senso, com'era tipico di un giovane, soprattutto uno che per lo stesso motivo si era offerto di arruolarsi con i paracadutisti. Soldi? Ah, questo sì che era il primo motivo per il quale mi ero offerto volontario per la missione in Libano! In banca non avevo che pochi spiccioli e mi serviva invece tutto, a cominciare dal prender casa per i fatti miei, con quello che costavano i mobili e tutto il resto, e a finire con un'auto decente e magari pure una moto. Se poi mi fosse avanzato qualcosa, avevo un gran desiderio di viaggiare per il mondo, per conoscerlo e godermela un po', prima di decidere ‘cosa fare da grande'. In effetti, mi ero appena diplomato e quindi avevo solo diciannove anni, non essendo mai stato bocciato. A scuola me l'ero cavata bene in tutte le materie, ma l'università non era ancora il passaggio indispensabile che sarebbe divenuto per il futuro occupazionale di un giovane e io di continuare a studiare non volevo proprio saperne. Il servizio militare era invece obbligatorio e tanto valeva, almeno dal mio punto di visto, cercare di trasformarlo in un'avventura. Se poi ci si potevano fare pure un po' di soldi, era ancora meglio. E che soldi in questo caso! Lo stipendio per i membri della missione di pace in Libano, era da capogiro!
Tornando invece all'arma che si apprestava a far fuoco su di me, mi stava facendo passare dinanzi agli occhi anche la linea sinuosa della BMW M3 che albergava rombante nei miei sogni. Grigia scura, bassa, con i passaruote allargati e il vistoso spoiler al posteriore. Ahhh... era fantastica! Il sogno stava però per inghiottirselo cinicamente per sempre il buco nero della canna di un Kalashnikov. Eppure non mi era sembrato vero che potesse accadermi... O la mia era solo un'illusione? Non lo so, ma forse avevo avuto una premonizione... una sorta di preveggenza a breve termine sulla quale potremmo contare un po' tutti, se l'ascoltassimo, invece di cercare di essere sempre maledettamente razionali.
Ma eccolo il colpo d'arma da fuoco, ovattato dal rallentamento del tempo nelle mie percezioni di quel momento. Non avevo visto però alcuna fiammata uscire dalla canna del Kalashnikov. Avevo visto invece una nuvola rossastra nascondere i lineamenti del volto del militante, prima che piombasse all'indietro come un sacco vuoto, celato ai miei occhi dal muretto che gli aveva fatto da riparo. Qualcosa si stava muovendo intanto alla sinistra del mio campo visivo ed era da dove avevo in effetti sentito arrivare lo sparo.
“Amici!” Mi aveva urlato prontamente il Carabiniere del Reparto Tuscania che in tutta probabilità aveva appena fatto fuori il mio aspirante boia.
Dietro di lui altri Carabinieri stavano intanto arrivando rapidamente sul posto e anche i miei commilitoni mi stavano giungendo alle spalle. In breve il diroccato e combattuto incrocio stradale si era riempito di forze armate italiane, facendomi perdere di vista il mio salvatore.
Una decisa manata sulla spalla mi aveva però fatto voltare e me l'ero trovato al mio fianco, mentre mi guardava con un sorriso un po' impenetrabile, accentuato com'era dai nerissimi occhiali da sole che indossava e da una statura leggermente superiore alla mia. Anche il grado era più elevato, visto che era un ufficiale, sebbene di fresca nomina, cioè un sottotenente. Io ero invece un semplice caporale di leva.
“C'è mancato poco, eh?” La sua domanda era stata retorica.
“Mi hai salvato la vita!” Avevo risposto, scuotendo la testa e ancora incredulo, oltre che stupito del fatto di dargli del tu a dispetto della gerarchia. Mi era venuto spontaneo farlo.
“Direi di sì, ma ho fatto solo il mio lavoro.” Ci eravamo guardati per qualcosa più di un attimo, mentre cercavamo di comprendere la portata di quel che era appena accaduto, ma senza riuscirci... almeno non in quel preciso momento e con tutta l'adrenalina che circolava abbondante nel sangue.
“Per mia grande fortuna!” Avevo poi detto, non trovando altre parole. “Comunque io sono Marco,” avevo aggiunto, porgendo la mano, e pur conscio di come non ci fosse modo più banale per superare l'impasse.
“Michele,” era stata la pronta risposta del Carabiniere, “Mike per gli amici!” Mescolati com'eravamo tra soldati di altri paesi, la cosa più conveniente da farsi, in presenza di un nome difficile per gli stranieri da cogliere e pronunciare, era quella di darsene uno nello stesso inglese che si usava per parlarsi, ordini compresi.
“Beh... Mike, credo che quanto appena successo mi farà essere tuo amico per sempre!”
“Ci sto, se mi guarderai le spalle anche tu.” La risposta era arrivata dopo un attimo di esitazione, ma era stata accompagnata da ancora più forza nella stretta di mano, granitica al punto da esser quasi dolorosa. Anzi lo era!

* * *

E in effetti da quel giorno in poi io e Mike saremmo diventati sempre più amici, fino a divenire inseparabili ‘fratelli di vita', che era un legame che consideravo ancora più forte di quello di sangue.
Avrei comunque ripensato infinite volte in futuro a come fosse nata la nostra indissolubile amicizia, non solo perché mi avrebbe cambiato l'esistenza, che nel frattempo mi aveva concesso di proseguire, ma anche per come fosse stata forgiata da un atto di assoluta violenza.
Per quel che riguardava invece cosa ci facessero a Beirut tanti baldanzosi giovani come me nel 1982, potrei semplificare fin troppo le cose e spiegare come tra il 1975 e il 1990 si fosse consumata in Libano una drammatica guerra civile. Guerra ancora una volta combattuta in ragione di millenari contrasti tra popoli separati principalmente dalle rispettive religioni, nonché alimentata da influenze e azioni esterne riconducibili agli interessi degli stati confinanti. Siria e Israele si erano indubbiamente rivelati essere paesi abbastanza privi di scrupoli nel cercare di controllare territori e politiche locali, seppur con motivazioni, metodi e scopi diversi.
Per dei ragazzi nati e cresciuti in Italia, la situazione era praticamente impossibile da comprendere. Non c'era modo di capire chi avesse veramente ragione e chi torto. Torto che ci sembravano ormai avere tutti, tant'era che nessuno che fosse coinvolto nel conflitto pareva contento della nostra presenza sul posto. A farcelo pensare erano state anche le non poche volte che qualcuno ci aveva sparato contro! Cosa c'era andata a fare l'ONU, sebbene privata all'ultimo momento dell'ufficialità della missione dal veto opposto dall'Unione Sovietica? Bella domanda... rimasta poi tra quelle alle quali la storia non è mai riuscita a dare alcuna risposta credibile.
Mi sembrava inoltre persino impossibile credere che Beirut fosse stata un tempo considerata come ‘la Parigi del Medio Oriente', talmente si era ridotta ad un ammasso di macerie sul quale si era sparso sangue e si sarebbe continuato purtroppo poi a lungo a farlo.
L'intervento era comunque stato deciso soltanto dopo che l'ennesima e più grave strage di innocenti aveva inorridito l'occidente al punto da spingerlo a fare qualcosa per cercare di porre un freno all'esacerbarsi della situazione. Tra mille dubbi, si era sperato che potesse essere sufficiente a sedare gli animi l'invio sul posto di una forza di pace formata da soldati americani, francesi e italiani. Soldati che si erano trovati però nel fuoco incrociato delle diverse fazioni in lotta, con perdite in vite umane che avevano toccato, verso la fine del 1983, l'orribile picco dato dal duplice attentato che aveva risparmiato gli italiani ma era costato la vita a quasi trecento soldati americani e francesi. Continui attentati minori avevano imposto il ritiro del contingente di pace nel breve volgere di alcuni mesi, consegnando alla storia un nuovo insuccesso nel tentativo, comunque lodevole nell'intento, di costituire una sorta di ordine mondiale a protezione dei popoli. Tra le tante domande che mi ero posto prima, durante e dopo la mia esperienza a Beirut, una sola avrebbe albergato a lungo nella mia mente senza trovare alcuna risposta ed era se tutto quello attraverso il quale ero passato in quei mesi in Libano si sarebbe cancellato dalla mia coscienza, o se sarebbe invece rimasto costantemente in agguato nel mio subconscio. Solo la vita poteva dirmelo e l'avrebbe fatto, anche se molti anni più tardi.

* * *

“Quando sei arrivato qui?” Avevo chiesto a Mike, visto che, come per tacito accordo, ci eravamo ritrovati dopo cena allo spaccio improvvisato dal contingente italiano in un capannone abbandonato.
“Subito. Sono stato il primo a metter piede in questo inferno. E credimi che allora era peggio di adesso.”
“Tre mesi e mezzo fa. Vuol dire che...”
“Sì, ho firmato per restare,” aveva risposto Mike, con un tono di voce che pareva implicare qualcos'altro che non voleva ancora dire. Aveva anche abbassato gli occhi sulla birra che stava sorseggiando, perché tra di noi non c'era ancora la confidenza necessaria a dirci di più. “Mi sa che c'era bisogno di me qui,” aveva poi aggiunto con un sorriso che voleva essere un'allusione al salvataggio di poche ore prima.
“Ah, ah... Beh, io non posso certo negarlo,” avevo commentato, suggellandolo con un nuovo brindisi improvvisato. “Comunque non ci posso ancora credere a quel che mi stava per succedere. Sarei pure finito sui giornali, la televisione avrebbe intervistato i miei e magari avrei anche avuto un funerale coi fiocchi... da eroe per essere stato invece soltanto così imbecille da farmi sorprendere da uno straccione.”
Mike mi aveva fissato per un po', sollevando le sopracciglia, prima di dirmi con tono fattosi serio: “Tu li chiami straccioni, e per carità tanti lo sono, ma guarda che loro hanno qualcosa che noi non abbiamo. Questi qui ci credono! Ci credono in quello che fanno e sono pronti a sacrificare tutto per un valore più grande della loro stessa vita.”
Aveva ragione. Non l'avevo ancora vista così ed ero rimasto in silenzio, a bocca appena dischiusa, mentre Mike mi chiedeva: “Tu lo conosci qualcuno tra noi pronto a fare altrettanto? Io no. O forse sì, uno o due esaltati li trovi sempre... E infatti che cosa ci facciamo qui? Sappiamo a malapena dove ci troviamo... anzi, del Libano, della sua storia e delle sue genti non ne sappiamo un bel nulla.”
“Non hai torto,” avevo ammesso, abbassando io gli occhi sulla birra questa volta, imbarazzato dal mio frettoloso giudizio.
“Giusto! Non ho mai torto... Sappilo. Purtroppo!” Forse scherzava, o forse no, ma non lo conoscevo abbastanza da saperlo.
Riconcentrandoci sulle rispettive birre, stavamo intanto cercando di trovare un argomento diverso da discutere tra noi.
“Tu invece, Marco? Sei arrivato col nuovo contingente due settimane fa, suppongo.”
“Sì ed è un altro motivo per non lasciarci subito le penne. Ma posso chiederti perché hai voluto restare?” La cosa mi incuriosiva.
Il volto di Mike si era però prima rabbuiato e poi spalancato in un gran sorriso, mentre rispondeva: “Per il tuo stesso motivo... Per i soldi!”
Ci eravamo fissati a lungo, prima che ammettessi la verità, abbassando di nuovo involontariamente lo sguardo. “Già... è vero... l'ho fatto per i soldi, anche se non solo per quello!”
“Per che cos'altro?” Mi aveva domandato ad occhi sgranati, interrompendo il portare nuovamente alla bocca la bottiglia di birra.
“Ti sembrerà stupido e probabilmente sono un ingenuo, ma io un po' ci credo a ‘sta cosa di portare pace dove non ce n'è nel mondo e di renderlo un luogo migliore,” avevo risposto, facendo spallucce e lasciando Mike questa volta senza sapere come commentare le mie parole. “Comunque,” avevo aggiunto, distendendo il volto in un sorriso che voleva sdrammatizzare un concetto forse troppo più grande di me, “non sentiamoci troppo male per essere venuti qui per motivi principalmente venali. Chi è che non ha bisogno di soldi? A me servono di certo, ma tu invece... che ci devi fare?”
A quel punto la conversazione era inesorabilmente scivolata sui reciproci sogni, disquisendo in dettaglio di auto e moto, prima che Mike la concludesse, facendosi di nuovo serio in volto, con un frase alla quale avrei ripensato nelle notti successive. Mi aveva infatti detto: “Io però ho anche un altro motivo per restare qui, ma... ne parleremo un'altra volta.”

* * *

Una mano robusta mi stava scuotendo un braccio, tirandomi a forza fuori dal sonno profondo nel quale ero sprofondato. Per un attimo non avevo nemmeno capito dove mi trovassi, ma poi avevo riconosciuto sia la mia branda che l'abituale cacofonia di fondo. Mi era toccato il turno di notte e non c'ero abituato, quindi stavo dormendo durante il giorno, ma almeno la palpabile tensione dei pattugliamenti nel buio, con l'impressione di essere sempre osservati da qualche finestra avvolta nell'oscurità, si era risolta ancora una volta con un nulla di fatto e tutto era filato liscio.
“Su, sveglia... è mezzogiorno,” la gioviale voce di Mike non mi stava lasciando scampo. Dovevo alzarmi.
“Che c'è? Che succede?” La mia voce era invece decisamente impastata dal sonno.
“C'è che voglio farti vedere una cosa. Vestiti!”
“Cosa devo vedere?”
“Non farti pregare. Ti piacerà.” La sua espressione contenta era contagiosa e mi stava facendo passare rapidamente i postumi del sonno.
“Ho fame però!”
“Ahhhh... che piaga, ma ti conosco. Ho dei panini in macchina. Su, sbrigati. Ti aspetto fuori.”
Dieci minuti dopo ero salito su una Fiat Campagnola, a fianco dell'amico. Il fuoristrada era allora prodotto quasi esclusivamente per le forze armate italiane.
“Dove si va?”
“Hmmm... non te l'ho chiesto prima, dando la cosa per scontata, vista la sintonia tra di noi.”
“Eh? Quale cosa? Cos'è che non mi hai chiesto?”
“Se ti piace il mare!”
L'avevo osservato incuriosito, prima di rispondere di sì. Mike era quindi partito subito e sorrideva ancora, mentre guidava spedito e preciso tra buche, ostacoli vari e l'incomprensibile traffico locale.
“Non ho il costume però,” avevo provato a protestare, cercando di capire cosa mi aspettasse.
“E non ti servirà. Ti sembro uno che si stende al sole e si spalma di cremine come una femminuccia?”
In effetti no. L'amico sembrava tutto tranne che uno che passa ore su un lettino a far niente.
“La macchina come l'hai avuta?” Avevo cambiato discorso, per non insistere nel cercare di sciupare la sorpresa in serbo per me.
“Tranquillo, non l'ho fregata”
“Lungi da me il pensarlo.”
“Invece sì che l'ho fregata, o quasi,” aveva detto Mike, scoppiando a ridere. “Ho preso le chiavi e ho detto a quello dell'autoparco che gliela riportavo tra due ore. O tre. O quando mi andrà di farlo. Oggi non ho voglia né pazienza di discutere con nessuno.”
“E quando mai ce l'avresti avuta?”
“Touché!”
Sorridendo eravamo rimasti in silenzio per un po', assaporando la libertà di quel momento, finché non mi aveva assalito un pensiero e avevo chiesto: “C'è benzina, vero?”
“Ah! Porca miseria...” Mike aveva subito abbassato lo sguardo, in cerca dell'indicatore del livello. “Sì, sì, c'è il pieno, ma ammetto che non avevo controllato!”
“Bravo! Dove stiamo passando adesso non è il caso di restare in panne. Come lo spiegheremmo poi cosa ci facevamo qui?” In effetti eravamo entrati in uno dei quartieri più pericolosi e mi ero irrigidito sul sedile, mentre osservavo attentamente ogni altra auto, persona e finestra, capendo però che c'era troppo da controllare per garantirsi anche solo un minimo di sicurezza. “Comunque io sono armato, anche se una pistola vale poco, se non si è a distanza ravvicinata.”
“Perché non sai sparare,” mi aveva sfottuto Mike, beccandosi un pugno sulla spalla, prima di aggiungere: “Dietro il sedile ho il mitra. Non me ne separo nemmeno quando vado in bagno!”
Avevamo proseguito così per altri quindici snervanti minuti, tra un commento colorito e l'altro sui guidatori indisciplinati che si trovavano sulla nostra strada, arrivando infine alla meta, cioè ad un porticciolo turistico.
“Ma...” Ero sinceramente stupito. “Hai comprato una barca?”
“Magari!”
Superato il posto di guardia, Mike si era diretto deciso verso un molo al quale erano ormeggiati motoscafi tutti uguali, lunghi una decina di metri e con ingombranti e sicuramente potenti motori fuoribordo. Stavo iniziando a capire cosa avesse in mente di fare.
“Allora che dici?”
“Dico che sono bellissimi, ma non serve la patente per guidarli? O usciamo con qualcuno?”
“Usciamo da soli. La patente ce l'ho.”
“Wow, sei pieno di sorprese.”
“Belle, spero. O soffri il mal di mare?”
“No, no... o almeno non credo. Però non sono mai salito su un affare del genere.”
“Beh... allora stiamo per scoprirlo!”
Firmate un po' di carte in un piccolo ufficio non distante, eravamo saliti su uno dei motoscafi. L'avvio dei due motori fuoribordo aveva prodotto una scossa vigorosa che aveva fatto vibrare lo scafo, accompagnata da un rombo inebriante. Staccate le cime d'ormeggio e rimossi i parabordi, eravamo finalmente pronti a partire.
Mike aveva dato giusto un po' di gas alle manette, ma era stato sufficiente per far sollevare il motoscafo e sentire l'aria di mare accarezzarci volto e braccia, ricca anche del suo profumo. Era davvero una sensazione piacevole, sebbene fossimo ancora all'interno del porto e ad andatura ridotta. Non si sentiva però già più il caldo soffocante di poco prima e la gita inattesa cominciava a piacermi.
Una volta nel canale, marchiato dalle boe, che ci avrebbe condotti verso il mare aperto, avevamo iniziato ad avvertire il pulsare del mare, creatura viva sotto di noi. In quella splendida giornata il moto ondoso era comunque poca cosa.
“Pronto?” Mi aveva poi chiesto Mike, con un sorriso sornione e una mano sulle manette.
“Per cosa?” Il mio tono era stato un pizzico più preoccupato di quel che avrei voluto che fosse.
“Per questo,” aveva risposto Mike, dando immediatamente fondo alle manette e facendomi quasi cadere all'indietro sul sedile, con suo sommo divertimento. Tra accelerazione e sollevamento della prua era in effetti il caso di tenersi ben saldi, non avendo io nemmeno alcun volante del timone tra le mani. La barca intanto volava già ad una velocità che mi pareva impossibile, non avendola mai sperimentata sull'acqua prima di allora in tutta la mia vita. Planava sicura sulle onde, a volte persino staccandosene, grazie a quelle che le facevano da trampolino.
Avevamo proseguito così la corsa, senza parlarci, per diversi minuti. Evidentemente Mike voleva darmi il tempo di assaporare e metabolizzare sensazioni per me del tutto nuove, mentre la rotta si faceva progressivamente sempre più parallela alla linea della bellissima costa.
“Ci voleva,” mi aveva detto ad un tratto, ma non ero sicuro di aver capito nel frastuono di aria, acqua e motori.
“Non ti sento...”
Mike aveva allora iniziato a ridurre la velocità e con essa il rumore della corsa. Ci eravamo quindi goduti per un altro po' il piacere dato da un'andatura decisamente più tranquilla e silenziosa, forse troppo. Sentivo infatti che non eravamo lì per caso. L'amico sembrava cercare il momento giusto per dirmi qualcosa, finché mi aveva chiesto: “Sai quello che ti ho detto l'altra sera?”
“Forse sì, se ti riferisci alla ragione per la quale sei rimasto qui.”
Mike aveva annuito, con un cenno della testa, lasciando poi vagare lo sguardo su un orizzonte che probabilmente non stava più realmente osservando. Guardava dentro di sé.
“Mia madre...”
Ah! Detto così in quel momento non poteva essere una bella notizia ed ero quindi rimasto senza parole, osservandolo raggelato. Cosa si dice poi in questi casi? Non lo sapevo, ammesso che ci fossero davvero delle parole adatte.
“Marco... mia madre sta morendo...”
“Oh no, Mike...”
“No, ma va bene... è la vita, cioè. Sono cose che succedono, anche se forse lei è un po' troppo giovane.”
“Quanti anni ha?”
“Quarantotto... no, scusa, ne ha appena fatti quarantanove. Non posso però pretendere che certe cose capitino sempre e solo agli altri.”
“Anche se si vorrebbe che fosse così,” avevo poi amaramente concluso io per lui, cercando di capire come potesse sentirsi. Senza riuscirci ovviamente. Se non si passa di persona per le esperienze più dure della vita, non si ha nemmeno una pallida idea di quanto devastino l'animo anche più forte.
Dopo almeno un minuto di silenzio carico di sensazioni profonde gli avevo invece chiesto: “Scusami se te lo chiedo, ma non vorresti essere a casa con lei?”
“Sì!” La sua voce era però così bassa e stentata che avevo colto a malapena l'assenso. Avevo invece lasciato il mio posto e l'avevo abbracciato, prima di chiedergli “Ma allora perché non vai a casa?”
“Non posso. Non vuole... mia madre. Non vuole che la veda soffrire quello che sta soffrendo. E non vuole che la veda ridursi nello stato pietoso nel quale si sta riducendo. È inumano. Mi ha supplicato di partire e di conservare invece sempre una bella immagine di lei. Una serena e sorridente, abbracciata a me, mio padre e mio fratello.”
Mike aveva quindi portato le manette a zero e si era sciolto nel mio abbraccio. Non sapevo più che dire, soprattutto quando la sua robusta schiena aveva iniziato a sobbalzare e dopo un po' il suo singhiozzare si era rotto in un pianto straziante. Aveva poi lanciato un urlo che aveva ben poco di umano.
PRIMO CAPITOLO - Vent'anni dopo


Era davvero ‘una bella giornata di brutto tempo', come amavo definirla io. Apprezzavo infatti come il maltempo tenesse la gente lontana dal centro città, lasciandomela finalmente gustare appieno. Non avevo nemmeno fatto fatica a trovare parcheggio al rientro a casa, che era un altro apprezzatissimo bonus. Avevo affittato un piccolo attico, che per fortuna aveva almeno una cantina, ma del garage neanche a parlarne, tanto più che abitavo nell'area pedonale della parte storica. L'attico restava comunque defilato quel tanto che bastava dalle rotte di chi si riversava in centro di sera e nei fine settimana, concedendomi la necessaria tranquillità. Questo a meno che non ci fosse chi cercava proprio vicoli lontani da occhi e orecchi indiscreti per fare quanto da farsi di nascosto, come consumare alcol e droga. Avevo peraltro anche beccato coppiette focose che andavano ben oltre le effusioni più calde! L'unico problema sorto negli ultimi tempi era invece rappresentato da come sempre più appartamenti, più o meno confinanti con il mio, venissero affittati a turisti in cerca di sistemazioni più economiche, pratiche e spaziose di una classica camera d'albergo. Chi era in vacanza non aveva sempre, anzi, orari e attenzioni tipiche però di un vicino di casa tradizionale, che cerca di convivere in pace con gli altri condomini, da cui il sorgere di innegabili disturbi e di qualche notte agitata. Forse avrei dovuto cambiare sistemazione, spinto anche dal fastidio di dover lasciare l'auto al sole e alla pioggia. Se poi avessi avuto un garage con l'ascensore collegato all'abitazione, non avrei nemmeno più dovuto camminare a lungo con pesanti borse della spesa tra le mani, come stavo facendo in quel momento. Aspettavo infatti Mike a cena da me.
“Buh!” Un'ombra era sbucata all'improvviso da un portico a pochi metri da casa, facendomi trasalire.
“Mike, ma...” Avrei voluto mandarlo a quel paese, ma la sua fragorosa risata era stata contagiosa. “Se mi cadeva la spesa te la facevo rifare!”
“Dai, dammi qua,” mi aveva detto, strappandomi due borse dalle mani, “che avresti dovuto vederti. Camminavi curvo come un vecchietto, anche se non pesano niente!”
“Prova a portarle tu per dieci minuti e poi ne riparliamo. E poi ero a testa bassa per ripararmi gli occhiali dalla pioggia.” Eh sì, avevo purtroppo perso vista con gli anni al punto da doverla correggere per forza.
“Mettiti un cappellino come faccio io.”
“Lo sai che mi dà fastidio, ma sarà meglio che me ne compri uno. Odio gli ombrelli. Mai avuto uno...”
“Ed è anche il caso che vieni a vivere fuori dal centro, con un garage col basculante elettrico.”
Non aveva torto! Eravamo comunque restati in silenzio, mentre raggiungevamo il portone di casa ed entravamo nell'atrio.
“E ti serve un ascensore più grande,” aveva giustamente aggiunto Mike, mentre cercavamo di trovare spazio entrambi nell'angusta cabina, resa ancora più tale dall'ingombro delle borse della spesa. Non che fossimo particolarmente alti... Mike era oltre il metro e ottanta e io lo sfioravo, ma avevamo però entrambi le spalle belle larghe.
“Non ce ne stava uno più grande nella tromba delle scale.” La palazzina era vecchia infatti e l'ascensore era stato un'aggiunta recente, per fortuna, visto che abitavo al quarto piano. Eravamo poi rimasti nuovamente in silenzio, mentre salivamo, cosa che per noi non era affatto un problema. Alle volte ce ne stavamo così non proprio per ore, ma... forse anche sì.
“E che ne dici di una porta blindata?” Aveva poi incalzato l'amico.
Mi ero bloccato con la chiave a mezz'aria, guardandolo a bocca aperta prima di dire: “Okay, hai vinto, domani vado in agenzia e mi faccio cercare un'alternativa, così la finisci di rompermi le balle.”
“Ah, ah... Apri dai, che c'ho freddo e fame!”
“Non so se ho qualcosa da cucinare!”
Viste le mani occupate, Mike mi aveva allora prontamente rifilato una testata su una spalla, come al solito facendomi male.

* * *

Un paio d'ore più tardi eravamo ancora a tavola, intenti a sorseggiare un amaro. Altro che vodka, cocktail o altro di più esclusivo, perché di fondo eravamo persone semplici e stavamo assaporando la tranquillità della serata, sebbene paresse pregna di una sottile tensione che aleggiava nell'aria.
“Mi sembri pensieroso,” mi aveva detto a un tratto Mike.
Non avevo risposto subito, cercando di riflettere per chiarirmi le idee, ma senza riuscirci.
“Non so,” avevo poi iniziato a rispondere. “Sono stanco, ma non fisicamente. Mentalmente forse. Mi manca qualcosa... però non so cosa.”
“Stimoli!”
Avevo dovuto di nuovo cercare a lungo una risposta, prima di dire: “Credo di sì.”
“Dovresti cambiare qualcosa”
“A parte la casa, cioè?”
“La casa sarebbe un passo avanti, ma non una vera soluzione.”
“Una donna?”
“Ci vai subito giù pesante...”
“No, no... è che di solito è la prima cosa che mi dicono tutti. Non ne posso più.”
Eravamo rimasti un altro po' in silenziosa introspezione.
“Mike, certo comunque che potrebbe farmi piacere trovare una ragazza per la quale provare quel qualcosa di speciale di cui parlano tanti, ma prima vorrei sentirmi più a posto,” avevo detto, riprendendo l'ultimo argomento.
“In che senso?”
“Vorrei avere una casa mia. Più grande, ma soprattutto un lavoro gratificante. Del mio mi sono definitivamente stufato... Va bene, eh, non fraintendermi, ma... non so come spiegarlo. È come se non me lo sentissi più addosso.”
Dopo il congedo avevo fatto diversi lavori, prima di assumere una rappresentanza di abbigliamento sportivo di una marca straniera che a quel tempo era nuova per la mia zona, ma di grande successo altrove. Mi ci ero e mi ci stavo ancora impegnando molto, con lusinghieri risultati.
“Ho capito. Comunque un lavoro come il tuo non l'avrei mai nemmeno iniziato.”
“Beh, nulla regge il confronto con la missione di servire la gente e il paese che hai tu, mettendo in galera i cattivi. Tu puoi fare ogni giorno la differenza e lo invidio moltissimo.” Mike era infatti ormai comandante, con il grado di Maggiore, dell'unità di contrasto del traffico di stupefacenti del comando dell'Arma dei Carabinieri di Padova. Molti anni prima aveva chiesto il trasferimento dal Piemonte per starmi più vicino e questa sì che era vera amicizia!
“Fino a qualche anno fa potevi ancora fare domanda. Ora credo che sei troppo avanti con gli anni, ma posso guardare e metterci una buona parola...”
“Grazie, ma sai che potrebbe non bastare.”
“Tuo fratello e tuo padre...”
“Non torniamo sull'argomento, ti prego, soprattutto ora che ho pure problemi di vista.”
“Gli occhi si possono operare, anche se io non lo farei, ma con quello che ti manca non dovrebbe essere un problema. Per la fedina penale non esattamente pulita dei tuoi parenti, ormai credo che non sia più la pregiudiziale che era una volta, dimostrando ovviamente la tua piena dissociazione.”
“Ti avevo chiesto di non girarmi il coltello nella piaga... e comunque lo sai che non ci frequentiamo da secoli.”
“Scusami!”
“Va beh, però è superfluo dire che me ne vergognerei sempre, visto che salterebbe fuori un domani, in caso di contestazione di qualsiasi genere. Non lo dico per la carriera, anche se non è che i miei fossero dei veri criminali. Più che altro sono stati e probabilmente saranno sempre degli opportunisti.”
“L'occasione fa l'uomo ladro!” Ma poi, alzando le mani in segno di resa, Mike aveva aggiunto: “Lo so, è banale.”
“Tranquillo, ci può stare. Ma sia chiaro che non li giustifico lo stesso, anzi.” Era comunque vero che avessero commesso reati relativamente minori, ma non volevo assolutamente ripensarci, non avendo mai capito atteggiamenti e scelte per me del tutto incomprensibili, oltre che inaccettabili.
“In ogni caso non riuscirei più a digerire le tante, troppe per me, ore di insegnamento di un'accademia, seduto dietro un banco come uno scolaretto,” avevo aggiunto poi. “Pur essendo stato bravo a scuola, non ho mai sopportato ascoltare qualcuno tutto il giorno. Mi faceva impazzire. E infatti c'era una materia nella quale zoppicavo, usando un eufemismo.”
“La condotta. Me l'hai detto un miliardo di volte.”
“Non lo dirò mai più,” avevo ribattuto stizzito.
“Ah, ah... Vedi che caratterino che hai?”
“Non vorrei ripetermi nuovamente ora, ma sai anche che facevo il cameriere nei fine settimana e spesso pure durante i giorni feriali, di sera, per mantenermi agli studi. Per mio padre non era un vanto avere un figlio bravo a scuola. Secondo me se ne vergognava pure. Era come se un vero uomo dovesse per forza essere un asino. E non era solo lui a pensarla così... magari. Lo era anche l'ambiente... la gente in generale. Quante volte mi hanno chiamato ‘secchione' per prendermi in giro. O ‘secchia', per non dire altro. A qualcuno ho spaccato il muso per questo. Sul serio. E io mica studiavo tanto. Era vero il contrario, ma le cose di scuola le ho sempre capite al volo. E poi ho buona memoria.”
“Non avevo dubbi, ma... a proposito, non ti avevano soprannominato Einstein?”
“Lascia perdere... Era una scuola di pessimo livello.”
“Non fare il modesto. Secondo me era azzeccatissimo invece. Avessi io la metà del tuo cervello... Aggiungici infatti il mio fisico e il mio fascino... Ahhhh, avrei il mondo in mano!”
“Che stronzo... comunque prendimi per i fondelli, ma guarda che c'ho sofferto quando mio padre mi ha detto che se ero così bravo a scuola potevo fare a meno di contare sui weekend per mettermi al pari degli altri, studiando. Potevo andare lavorare, mi ha detto, che poi era solo una scusa per fare a meno di darmi la mancia e dovermi comprare la moto prima e l'auto poi, visto che abitavamo in aperta campagna. Non c'era nemmeno l'autobus...”
Non era un bel quadretto famigliare da immaginare e quindi la conversazione era rimasta a languire per un altro po', finché Mike non mi aveva chiesto “Soluzioni?”
“Cosa c'è da risolvere?”
“La situazione che hai appena descritto.”
“Non so se è una situazione... Sono cose che si dicono perché c'è sempre qualcosa che non va nella vita di tutti.”
“Restiamo alla tua. Vuoi continuare così? Seriamente...”
“Mike, non lo so. Ci penso ogni tanto, ma senza trovare una risposta convincente.”
“Ci sarà qualcosa che possiamo fare...”
“Possiamo? Insieme intendi?” Il mio stupore era sincero.
“Siamo amici. Siamo una squadra. Anzi siamo la nostra famiglia. Magari mettiamo su una ditta...”
“Di cosa?”
“Di qualsiasi genere.”
“Quale? Nel mio ambito potrei al limite solo importare qualcosa che non c'è, ma da un lato ci vogliono un sacco di soldi per farlo, che per inciso non ho, mentre dall'altro non manca più nulla nel mercato.”
“Hmmm... Ne sei sicuro?”
“Abbastanza. E poi tu? Lasceresti i Carabinieri?”
“Anche sì, ormai,” mi aveva risposto, spiazzandomi decisamente. Fino a quel momento non avrei infatti mai immaginato nemmeno lontanamente di sentirgli dire una cosa del genere. “E farti invece assumere da qualche grande azienda?” Mi aveva chiesto, rilanciando e riportando la discussione su di me. “Intendo dire come manager, per salire un po' alla volta ai vertici.”
“Ma lo sai quanti ne assumono senza una laurea?”
“No.”
“Zero,” l'avevo detto mimandolo con indice e pollice di una mano uniti e sottolineandolo con l'espressione delusa che assumevo ogni volta che affrontavo lo stesso argomento.
“Ho capito, ma... soluzioni?”
“Ancora con ‘ste soluzioni... Non ce n'è nessuna. O almeno nessuna che mi venga in mente, se escludiamo lotterie, totocalcio e quant'altro, anche se almeno dovrei giocarci e non lo faccio mai.”
A quel punto Mike aveva iniziato a guardarmi con una strano sorriso, prima di chiedermi: “Ti cambierebbe le cose avere un sacco di soldi?”
Avevo l'impressione che ci fosse sotto qualcosa di più di una semplice battuta, ma non intuivo ancora quale.
“Che domande... Certo che mi cambierebbe tutto!”
A quel punto era tornato il silenzio, mentre la tensione cresceva fino a divenire palpabile.
“Cosa c'è?” Lo avevo incalzato. “Prima mi lasci senza parole, dicendo di volerti congedare, e ora mi fai intuire che ci possa essere sotto dell'altro. Che succede? C'è qualcosa che mi vorresti dire?”
Mike era rimasto zitto a testa bassa per un po', prima di sollevare solo lo sguardo e dirmi “Sono stanco anch'io Marco... Molto stanco. Non hai idea quanto.”
In effetti, ripensandoci avevo capito di aver trascurato più di qualche segnale di questo turbamento dell'amico negli ultimi tempi, avendoli invece interpretati come fenomeni passeggeri.
“Riguarda il lavoro, suppongo,” avevo iniziato ad approfondire allora il problema. “Ma cosa? Il lavoro di per sé, i colleghi, il comando, una persona in particolare o altro?”
“Mi sento come... Ahhh, non so neanche spiegarlo...”
“Provaci.”
“Marco, mi sento sporco!”
“Sporco?”
“Sì e lascia che mi ripeta io adesso, così magari mi viene fuori qualcosa che non sono ancora riuscito a far emergere. Ci sto impazzendo. Nel giro della droga c'è davvero la gente peggiore. Si ammazzano per cose da nulla. Non tornano i conti e tagliano gole, o meglio prima tagliano tutto il resto, per essere sicuri di quanto è stato rubato e come, se ci sono complici e dove sono stati nascosti i soldi o la roba, e poi tanto ammazzano lo stesso la persona di cui non si fidano più, cioè pure quando non sono nemmeno certi che chi fanno fuori sia colpevole di qualcosa. E non capisco come sia possibile, ma qualcuno ci prova sempre a fregare chi lo comanda, pur sapendo quello che rischia. Girano troppi soldi... Fanno perdere la testa. Chi sta sopra però se ne accorge sempre e le conseguenze sono terribili. Sono animali. Anzi sono peggio degli animali. Quelli che arrivano dall'ex Jugoslavia e da più in là ne hanno viste così tante che non hanno più alcun rispetto per la vita. Non hai idea... Ci sono poi quelli che arrivano dalle cosche del sud, che non è che siano tanto meglio. E me li ritrovo tutti ogni giorno nella mia vita. Trascorro la maggior parte del tempo con questa gente! Mi fa schifo anche doverli toccare a volte. E invece devo studiarli e discuterci per ore, se li arresto. Ma non parliamo nemmeno degli arresti, visto come tra avvocati, magistrati e leggi ridicole escono quasi sempre tutti subito, ‘sti bastardi figli di puttana. Al massimo si fanno solo un veloce soggiorno nelle patrie galere. Soggiorno di specializzazione e intreccio di nuove amicizie, tra l'altro. Poi quando sono fuori e mi trovano in giro, o al bar a bere un caffè, hanno pure il coraggio di minacciarmi. Come oggi a pranzo...”
“Cosa è successo oggi?” Stavo iniziando davvero a preoccuparmi, al punto che mi ero alzato e avevo iniziato a passeggiare nervosamente, avanti e indietro nel piccolo salotto.
“Uno, un tizio alto, grosso e brutto come il peccato, che lì per lì non avevo nemmeno riconosciuto, è venuto al mio tavolo e davanti a tutti mi ha detto di avere un debito da saldare. E dovevi vedere che sorrisetto che aveva.”
“Che debito?”
“L'ho capito poi... L'avevo arrestato io qualche anno fa.”
“Ah! Ma ti ha affrontato così, sfacciatamente?”
“Sì.”
“E tu? Non dirmi che hai reagito...”
“Peggio. Non c'ho più visto. Mi sono alzato e l'ho steso a pancia in giù con un calcio. La gente è scappata dal ristorante, mentre gli sono montato sulla schiena con un ginocchio e gli ho detto che la prossima volta che mi si fosse avvicinato sarebbe stata l'ultima.”
Ero rimasto impietrito, pensando prima al suo stato d'animo e poi alle possibili conseguenze disciplinari. “E dopo cosa è successo? Non avrai...”
“No... cioè... per un attimo stavo davvero per tirare fuori la pistola e puntargliela alla tempia,” aveva risposto, leggendomi il pensiero. “E avrei voluto farlo. Quanto l'avrei voluto. E forse avrei persino tirato il grilletto!”
“Mike...”
“Lo so, lo so... Ho sbagliato a reagire. Non capisco cosa mi abbia preso. O forse sì.”
“Con chi eri?” Gli avevo chiesto, dopo aver lasciato passare l'attimo che mi serviva per raccogliere le idee.
“Con due colleghi. Un brigadiere e un maresciallo.”
“Loro come si sono comportati?”
“Si sono alzati subito, ma non è successo altro e tutto è finito in un attimo.”
“Quello che hai messo a terra cosa ha fatto poi?”
“Niente. Si è tirato su e mi ha puntato un dito contro senza dire nulla, mentre se ne andava senza darmi le spalle.”
“E i colleghi?”
“Gli hanno detto di filarsela e di considerarsi fortunato se la cosa finiva lì.”
“E lui cosa ha fatto?”
“Non li ha nemmeno guardati. Ha tenuto gli occhi su di me.”
“Ma... è uno di cui aver paura adesso che faccia qualcosa?”
“Direi di no,” aveva risposto Mike, allargando le braccia, "ma non perché non ne sia capace. Non è possibile invece che uno sia così fesso da vendicarsi con un ufficiale dei Carabinieri.”
“Quindi? Sei davvero tranquillo?”
Mike aveva esitato, prima di dire: “Per lui sì. Per me no!”
“Cioè? Cosa vuol dire?”
“Mi sono spaventato della mia stessa reazione. Devo essere esaurito.”
“Ma... Mike, certo... ci sta... ma... Come rimediamo così sui due piedi? Vacanze ne abbiamo appena fatte...”
“Appunto!”
“Soluzioni?” gli avevo chiesto aprendomi in un sorriso che voleva stemperare la situazione. Gli avevo rivolto infatti la stessa domanda che poco prima lui aveva fatto a me.
Lentamente il suo volto si era comunque disteso.
“Lotterie, totocalcio e altro di succulento,” aveva contrattaccato, prima che ci scambiassimo qualche pacca amichevole.
Più tardi però, accompagnandolo alla porta, Mike aveva esitato, come cercando parole e pensieri, uscendosene alla fine con qualcosa che non mi avrebbe fatto addormentare nei soliti tempi, tutt'altro, con le sue implicazioni.
“Soldi,” mi aveva detto con un'espressione fattasi improvvisamente molto seria. “Dobbiamo fare i soldi, Marco. Quelli veri!”
SECONDO CAPITOLO - Alcuni mesi più tardi


Anche quella sera stava piovendo e in futuro avrei dato a ciò un'interpretazione particolare alla cosa, mentre in quel momento ero completamente assorbito dal pensiero di ciò che dovevo discutere con Mike, anzi decidere con lui.
Riparato da un portico affacciato sulla Piazza dei Signori, nuovamente deserta, o quasi, in virtù delle condizioni meteo, ero in anticipo sull'appuntamento di una decina di minuti, ma ero troppo agitato per restarmene a casa e continuavo a passeggiare nervosamente avanti e indietro.
‘Eccolo!' Avevo pensato poco dopo, osservando la figura che ormai ben conoscevo e che avanzava come al solito a passo deciso e atletico. Si era fermato a due passi da me, incurante della pioggia che gli stava inzuppando cappellino, rigorosamente da baseball (ne aveva una vera collezione), e spalle del bomber militare, altro capo d'abbigliamento abituale per lui.
Ci eravamo osservati sorridendoci, prima di stringerci in un maschio abbraccio che ci diceva già tutto, spazzando via gli ultimi dubbi.
“Sei fradicio,” gli avevo detto, sciogliendomi dall'abbraccio e scuotendo mani e braccia bagnati.
“Chi se ne frega e dimmi piuttosto che vuoi che lo facciamo,” la sua voce tradiva la mia stessa ansia.
“Sì, certo... facciamolo!” Avevo risposto riabbracciandolo, questa volta con ancora più forza di quella che ci metteva di solito lui. E non era cosa da poco!
A quel punto l'adrenalina scorreva a fiumi nel sangue di entrambi, facendoci chiacchierare fin troppo allegramente, se non pure un po' stupidamente, mentre camminavamo in centro alla strada e raggiungevamo una sorta di lounge bar dalle atmosfere soft.
Accomodati su poltrone in velluto viola in un angolo del locale, continuavamo a non riuscire a trattenere il sorrisetto regalatoci dall'esserci liberati finalmente dal pensiero di dover prendere una decisione pesante.
“Dovremmo brindare a champagne,” avevo esordito, “ma sarebbe meglio volare bassi.”
“Esatto. Non è il caso di farci notare.”
“Maggiore, cosa beviamo stasera?” Ci aveva interrotti la barista che conoscevamo bene entrambi, ma che aveva occhi e un, più che evidente ormai, debole per l'amico.
“Elena,” l'aveva subito accolta Mike, con un sorriso ammagliante, “è sempre un desiderio che si avvera vederti, ma questa sera mi sembri ancora più irresistibile del solito!”
“Maggiore...” aveva provato a protestare lei, arrossendo vistosamente.
“Lasciamelo dire, visto che non ho secondi fini. Ricordati infatti che io sono troppo vecchio per te!”
“Uffa... Vuol dire che non ho speranze?”
“Di far breccia nel mio cuore?”
“Infatti!”
“Mai. Lo sai che ce l'ho di pietra!”
“Non ci credo...”
“E fai male. Sei così giovane che non vorrei, con la gentaglia che gira di notte, presenti esclusi, che qualche figlio di buona donna che ci sa fare se ne approfittasse.”
“Lei scherza sempre...”
“No, non sto scherzando, Elena. Anzi, se anche ci fossero mai situazioni, che non ti auguro, delle quali non puoi parlarne con gli amici, né con i genitori, ma ti servisse che qualcuno desse, diciamo, un'aggiustata a chi se lo merita, sappi che io ci sono!”
“Grazie...” aveva balbettato la ragazza, visibilmente in imbarazzo.
“Non dirlo neanche e non parliamone più... anzi, portaci per piacere due birre delle solite.”
“Subito,” aveva risposto, esitando però a girare i tacchi.
“Meno male che non dovevamo farci notare,” era stato il mio commento, una volta che la cameriera si era allontanata.
“Hai ragione, ma questa ragazza l'ha fatta un po' di breccia nel mio cuore... e il suo non voglio spezzarlo.”
“Ahaaa... sul serio? Ma se avrà diciassette anni?”
“Non breccia in quel senso! Comunque ho controllato e ne ha ventitré. C'è però qualcosa in lei che mi fa scattare l'istinto protettivo.”
“Beh, se davvero ha quell'età non ci sarebbe niente di male se ti piacesse pure in modo più importante, cioè sentimentale e fisico. Il tempo vola e te la ritrovi donna vera in men che non si dica.”
La distrazione aveva comunque un po' raffreddato gli animi e di certo una semplice birra non sarebbe più stata in grado di riscaldarli. La nostra tolleranza all'alcol era di gran lunga più elevata, come ogni tanto controllavamo che fosse.
“Quand'è che hai deciso?” Avevo chiesto a Mike ad un certo punto, interrompendone i pensieri.
“Forse subito, cioè il giorno stesso in cui te ne ho parlato.”
“L'avevo intuito.”
“Non lo chiedo a te, perché tanto sapevo già che ci saresti stato, anche se come al solito ti sei fatto pregare.”
“Dici?”
“Ho forse torto, Marco?”
“Probabilmente no, ma mi ci è voluto un po' di tempo per digerire la cosa e ogni sua implicazione.”
“Io ci pensavo da mesi...”
“Ma adesso viene il difficile Mike... Dobbiamo mettere a punto i dettagli!”
“So già come fare, in linea di massima, ma una volta che avremo in mano i soldi servirà la tua testa per il dopo.”
“Tranquillo. So già anch'io il da farsi per quello! Intanto tra un po' tu ti dimetti e dici alla tua bella Elena che sei stato trasferito e qui non ci vieni più.”
Mike mi aveva osservato a lungo, prima di chiedermi: “E tu?”
“Io farò lo stesso, più o meno. Dico che ho accettato un nuovo lavoro all'estero, mi dimetto da quello attuale e cerco di non farmi più vedere in giro.”
“Così nessuno si porrà domande se poi spariamo per davvero.”
“Esatto, l'idea è quella. Se scomparissimo subito dopo quel che vogliamo fare, la gente potrebbe collegare le due cose.”
“Una lacuna però c'è.”
“Quale?”
“Una che è più una conseguenza che una lacuna, perché una volta che ci dimettiamo non potremo più tornare alla vita di prima!”
“Che è quello che vogliamo,” avevo detto con fermezza, dopo averlo fissato negli occhi per più di qualche secondo. In quel momento non sapevo però ancora quanto avrei ripensato a quella frase in futuro.
Gian Paolo Galloni
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