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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Christian Di Capri
Titolo: L'erba cattiva
Genere Thriller
Lettori 3946 29 55
L'erba cattiva
Regola numero uno: mai fidarsi di una donna con in mano una candela accesa. Che ti ha legato nudo al letto. Che ti invita ad abbaiare.

E bruciava, porca troia se bruciava la cera calda sulla schiena. Le lussuose e ricercate lenzuola di seta nere stavano per essere inevitabilmente danneggiate. Avrebbe voluto dirle di fare attenzione, ma sapeva bene che avrebbe rovinato l'atmosfera.
E quindi - Bau, bau, bau! -
D'altronde, i cinquanta sono i nuovi trenta, no? Alberto Meroni, playboy incallito/direttore d'azienda/padre di Serena nonché protagonista di questa storia, aveva da poco scoperto la forza e le potenzialità del male moderno: le storie di Instagram. Aveva iniziato a seguire personaggi del calibro di Gianluca Vacchi, Pierferdinando Sestri e compagnia bella. INFLUENCERS. Era cascato a piè pari nella trappola della finzione funzionale: si era convinto che avrebbe dovuto godersi maggiormente la vita, provare nuove esperienze aggiungendo più Wasabi e meno salsa di soia alla sua routine.
E quindi - spam! - prima frustata.
– Chi è la tua padrona, richione? – la mistress estone iniziò ad insultarlo.
Il suo IO recondito gli stava suggerendo di smettere quella messinscena umiliante, ma il suo amico tra le gambe, beh, non la pensava allo stesso modo.
– ...io – sibilò Alberto, timidamente.
– Non ho sentito, ripeti più forte.
– IOOO!
Altra frustata in arrivo.
Lui, uomo di potere, abituato in genere a prendere decisioni importanti nel suo lavoro, ad essere guardato con rispetto e attenzione, si ritrovava in posizione canina legato al letto a prendere ordini da una donna vestita con un abito nero in lattice. E l'aveva voluto lui.
Sarà stato forse il fascino del proibito, la voglia di sperimentare nuove esperienze, tutto ciò che la società moderna ripudia e reputa come perverso. E, fino a poco tempo prima, anche lui sosteneva che queste pratiche sessuali facessero parte di una minoranza poco evoluta e mentalmente contorta.

Necessitava di una pausa. Va bene essere legati al letto, farsi stritolare le palle, farsi colare cera bollente sulla schiena e farsi mordere i capezzoli fino a farli sanguinare, ma non pisciava da cinque ore!
Alicia, questo era il nome dell'avvenente donna rossa di capelli proveniente dall'Est e assoldata da Alberto per provare nuove esperienze, con la mano destra teneva il frustino di cuoio mentre il suo sguardo era in fissa sull'arto sinistro, più precisamente su un pezzo di smalto che le era saltato dall'indice.
– Alic...
– Come mi hai chiamato, schiavo?
– Scusi padrona, se me lo concede, dovrei urgentemente correre in bagno.
– No. Fatela addosso.
La mistress rideva compiaciuta mentre arricciava la coda dei capelli con il medio della mano sinistra, mettendo in serio imbarazzo il suo servo.
– Ma se pensi di non potercela fare, rispeto questo tuo limite. Per ora.
Mavaffanculo pensò Alberto. Eccitante eh, ma la donna si era calata troppo nel ruolo e si stava concedendo una licenza di troppo.
Chiuse la porta della camera, scese le scale ed entrò in bagno. Uno scarafaggio gli passò davanti e lo uccise con un piede. Ormai si era abituato a vedere formiche, api, grilli, libellule e ragni grandi quanto il suo ginocchio girare indisturbati per casa sua, la sua dimora di campagna a sud di Milano. Da quando aveva divorziato, il giudice aveva stabilito che la lussuosa villetta nella quale viveva con sua moglie Monica (acquistata nel duemilauno alla modica cifra di quattrocentocinquantamila euro mobili esclusi) in via Praticelli trentadue, vicino alla torre dell'Unicredit, sarebbe spettata alla consorte, almeno fino a che la figlia Serena non avesse compiuto i diciotto anni.
Aveva dovuto fare valigie e bagagli e trasferirsi. Aveva optato per l'opzione più comoda: la casa fuori mano a Zerbolò, che apparteneva ai suoi nonni. Era una casa fatiscente, i muri gridavano pietà e alzavano bandiera bianca contro la muffa che piano piano si stava inglobando l'intera struttura.
Ci rimango giusto un mese o due, il tempo di cercare una sistemazione più adeguata.
Di mesi, però, ne erano passati parecchi di più. Ovviamente le sue amiche intime non avevano mai visto quella casa, con loro continuava il trattamento - fivestar&go - : idromassaggio, terme e suite al Calamera Luxury Hotel. Del resto, come convinci una venticinquenne avvenente ad entrare in una casa fuori dalla civiltà che sembra crollare da un momento all'altro se non con un passamontagna ed un coltello alla gola?
Non era fattibile.
In quell'abitazione poteva portarci soltanto Alicia, lei aveva frequentato posti ben peggiori. E poi il prezzo di listino dei suoi servizi era così cospicuo che poteva chiudere un occhio su quel rudere.
Lasciò lo scarafaggio morente sul pavimento, mentre muoveva lentamente le zampette per i suoi ultimi secondi su questa terra. Alzò la tavoletta del cesso e fece partire un gemito di piacere.
Avvertì qualcosa di strano. Rumori emanati dall'interno di casa sua. Non gli sembravano provenire dalla stanza al piano di sopra dove Alicia lo stava aspettando, ma piuttosto dal piano di sotto.
Sarà qualche animale, una nutria selvatica o qualche topo, piccione o chissà che altra bestia abbia messo radici nella cantina.
Si lavò le mani, uscì dal bagno e, salendo i primi gradini della scala a chiocciola in legno, sentì un piagnucolio dalla cantina.
Ma che cazzo succede?
Sembrava essere un lamentio strozzato, quasi isterico.
No, non può essere. Sono gli effetti collaterali del Popper che ho inalato a inizio rapporto. Sicuro.
– Schiavo, muoviti cazo – Alicia si stava spazientendo – è pronta tua tutina, vieni a metterla.
Alberto si era come paralizzato sul terzo gradino della scalinata. Il pianto si fece più nitido. Ne era abbastanza sicuro. Sembrava reale. Merda.
– Alic...ehm...padrona...scusa padrona! Il tuo schiavo ha un problemino al pancino! Sorry! Dammi cinque minuti. – rispose, simulando una vocina bizzarra.
Probabilmente era il frutto della sua immaginazione (quella casa era disabitata da anni a parte gli ultimi mesi: se ne era accorto solo all'ora di non essere l'unico umano a viverci dentro?), quel rumore sarebbe potuto provenire da un pipistrello o altra bestia campagnola intrappolata tra gli scatoloni e vecchi mobili accatastati nella taverna. O quello che c'era giù. Chi scenderebbe al piano inferiore, se non per fare una seduta spiritica? Si mise le espadrillas ai piedi e aprì la porta di legno che lo avrebbe condotto all'entrata dell'inferno. Nella sua vita non si sarebbe mai immaginato di assistere ad una visione del genere.
Non c'erano gli scatoloni che si ricordava. Nemmeno la vecchia cucina accatastata sulla parete sinistra. Senza tutta quella roba la cantina, che sarà stata un novanta metri quadri, sembrava molto più grande.
Ma Alberto stava soffocando.
Gli mancava il respiro, come quando stai per un minuto e mezzo sott'acqua per superare il tuo record personale di apnea. Davanti a lui c'era una gabbia. Tipo prigione. Con...con un essere umano all'interno.
Silhouette femminile.
Aveva la testa coperta da una maschera e indossava una divisa da galeotto. Da quanto tempo era lì? Chi ce l'aveva messa? Alberto si avvicinò, incredulo.
La donna era legata al muro, sia mani che piedi, tramite delle grosse catene agganciate ad un anello di ghisa incastonato nel muro. Era seduta rivolta verso di lui. La maschera che le ricopriva il volto dal naso in su era quella di un clown: naso rosso, occhi neri enormi e i capelli arancioni attaccati sull'estremità in alto.
La prigioniera cercava di urlare ma faticava parecchio, visto lo scotch applicatole sulla bocca.
Alberto vantava due grosse sopracciglia molto espressive che alzava nei momenti di incredulità. In quel momento se ne stava fermo, immobile. Erano loro a comunicare il suo stato d'animo.
Avrebbe voluto aiutarla, ma il suo corpo non rispondeva ai comandi. Era come se i suoi muscoli si fossero atrofizzati da un momento all'altro. A stento riusciva a stare in piedi, gli mancava l'aria.
C'era inoltre una puzza tremenda. Si sporse in avanti per vedere meglio l'interno della gabbia e notò alcuni escrementi. Sembravano umani.
– Chi sei? Chi ti ha ridotto così?
Alberto afferrò due lastre di metallo della struttura per cercare di scardinarla, ma con scarsi risultati. La gabbia era stata installata in maniera magistrale al pavimento con viti e bulloni, ma non solo: era stato utilizzato il cemento per unificare la gabbia con le pareti della cantina, per renderne ancora più difficile la distruzione.
La donna cercò di dire qualcosa, ma risultò incomprensibile.
– Servo, dove sei?
Le gambe gli tremavano.
Nella vita era riuscito a districarsi in molte situazioni grazie alla sua capacità camaleontica di adattarsi ai diversi ambienti che aveva conosciuto; il suo istinto da leader lo aveva
inoltre portato ad essere una persona obiettiva, in grado di pensare a mente fredda e lucida. In questo era parecchio bravo, se la cavava. In un modo o nell'altro, se la cavava sempre.
Alberto, pensa. Tu sei Alberto Meroni, e ora uscirai da questa situazione del caz...
Neanche il tempo di finire il pensiero, che si vomitò addosso.
Sentì i passi di Alicia sulle scale.
Ok, ho ancora qualche secondo.
– Torno subito, per favore non fiatare. Torno subito ad aiutarti, promesso.
I versi, simili a dei latrati, che emanava la vittima gli fecero accapponare la pelle.
– Shhh...ssshhh... stai tranquilla, andrà tutto bene. Te lo prometto. Ora resta in silenzio. Ti giuro che tra dieci minuti sarai fuori di lì – ripeté alla prigioniera, cercando di calmare la sua disperazione.
Corse verso il bagno dove c'era Alicia incredula che lo aspettava.
Non capitava certo tutti i giorni, ad una donna come Alicia, pagata trecento euro a servizio, vedersi arrivare il suo cliente, un pezzo grosso dell'industria dei buyer online, correre in bagno tutto pallido in viso come un fantasma e con il petto sporco di vomito per via delle umiliazioni subite. Una scena esaltante. Motivo d'orgoglio, insomma.
– Tu non sei schiavo, tu sei pegio! Vomiti come una bambina! – partì una risata fragorosa.
– Scusa Alicia, sono distrutto. Devo chiederti di andare.
– Io sono pagata per stare tre ore, ne manca una. Rilassati, schiavo. Anzi, vomitino.
– Davvero Alicia, non sto molto bene. – rispose indicando la maglia sporca.
– Ma dove sei andato a vomitare?
– Come?
– Qui non c'è vomito e quando sono entrata in bagno non c'eri.
Alberto si sentì mancare. Ci mancava solo una tizia conosciuta su Hubber che giocava a fare l'investigatrice. La rossa gli lanciò uno sguardo violento, conscia di essere in una posizione di forza. Si stava nutrendo della sua angoscia.
– Qui non c'è vomito. Ma stai bene? – chiese, avvicinandosi a passi lenti verso l'uomo.
– Ti devo chiedere di andare – insistette lui.
Non poteva permettere ad una estranea di conoscere quel segreto celato in cantina. Sarebbe stato come togliere i braccioli ad un bambino di tre anni in mezzo all'oceano. Già le sue probabilità di sopravvivenza sarebbero poche, senza i galleggianti sono nulle.
In quegli attimi si stava accorgendo di avere una donna segregata in cantina, nella SUA cantina.
Nella SUA proprietà.
Ormai si immaginava la reazione ilare dei poliziotti quando avrebbe detto - io non c'entro nulla! Non so chi sia questa donna! E soprattutto non so come ci sia finita qui - .
La porno-sadica doveva assolutamente sloggiare. Togliere le tende, andare a fanculo, se le avesse reso meglio l'idea. Con le buone, o con le cattive.
– Coso, io sono stata chiamata per tre ore. Nel mio lavoro c'è chi si caga addosso, chi piange, chi si masturba davanti a me. E il gioco non finisce finché non lo dico io. Ora torna di sopra che ti aspetta un nuovo giochino!
Alberto cercò di ragionare.
C'era qualcosa che poteva fare? Prima di prenderle la testa e fracassargliela contro il lavandino del bagno?
Beh, da che mondo è mondo, i soldi sono la soluzione a molti problemi.
– Ti do duecento euro in più. Non ce la faccio più. Sei bravissima, non mi frainten...
– Non leccarmi il culo. Va bene per i duecento euro. Ma c'è un'ultima cosa che devi fare. Pisciati addoso.
– Dai, non è necessario. Te ne do trecento in più ma solo se te ne vai ora.
– Pff. Italiano. Tu pisciati addoso e mi prendo la roba, i soldi e vado via – disse, con un sorrisetto malizioso stampato in faccia.
Un altro metodo efficace poteva essere la violenza fisica.
Se l'avesse messa fuori uso, magari con un pugno in pieno volto da provocarle un trauma cranico, o con un calcio pieno nelle ovaie, o magari lanciandola fuori dalla finestra del primo piano, non avrebbe più dovuto assistere a quella assurda conversazione.
Però lui non era Bruce Lee, e se l'avesse ammazzata involontariamente?
Oltre a sequestro e maltrattamento di persona, l'avrebbero accusato di omicidio.
Alberto chiuse gli occhi e si concentrò per farsela addosso.
Sentì applaudire.
La rossa stava ridendo.
– Così ti volio, schiavo. Non pisciare, che schifo che mi fai. Ma ricordati: quello che ti dico, tu devi fare.
La mistress preparò quindi la sua roba e, dopo aver ricevuto i seicento euro in contanti da Alberto, si avviò verso l'uscita.
Tutto stava procedendo per il verso giusto, fino a che si sentì un gemito provenire dalla cantina.
– Che cosa è stato? – domandò Alicia.

2 - Un mese prima

Per Alberto, lo stile di guida delle persone è lo specchio del loro carattere: se ad una rotonda devi prendere la terza uscita e metti prima la freccia a sinistra e poi a destra, sei una persona ligia, rispettosa e potenzialmente sovrastabile; se, al contrario, ad ogni semaforo giallo acceleri per evitare il rosso (ma rischiando di essere fotografato dalla telecamera di sorveglianza) sei una persona che ama il rischio, non vai particolarmente d'accordo con le regole imposte e sei un potenziale pericolo per te e per gli altri. In pratica, quelli con cui Alberto odia lavorare.

Erano le otto e cinquantasette minuti ed era quasi arrivato a lavoro. Tre minuti dall'inizio dei colloqui per assumere nuovo personale nel reparto marketing. Toccava a lui svolgerli quella mattina, dal momento che Martina, la channel manager dell'azienda, aveva dato forfait all'ultimo minuto a causa delle doglie preparto.
Ricordati di assumere solo maschi giovani sotto i venticinque anni: la percentuale di rischio di chiedere il congedo paternale si riduce drasticamente.
O sotto i venticinque o sopra i sessanta e seconda regola: non devono emanare strani odori.
Si potrebbe pensare che è più conveniente assumere personale giovane o anziano per via degli sgravi fiscali (arrivano fino al cinquanta per cento a dipendente), ma ad Alberto interessava che i suoi dipendenti fossero presenti con la testa a lavoro, e che non pensassero a troppe stronzate.
Del resto, dopo i venticinque anni aumenta il pericolo di mettere su famiglia, sposarsi, accasarsi. Tutto bello, tranne che la concentrazione è assente, nelle ore lavorative si sta su Amazon ad acquistare libri interattivi per bambini o su Trivago a prenotare la vacanza in Liguria in un hotel tre stelle a PENSIONE COMPLETA. Se lo ripeteva spesso: PENSIONE COMPLETA. L'idea che un suo dipendente scegliesse di proposito una soluzione del genere per l'unica sua settimana di relax all'anno era avvilente. Mangi a pranzo, cena e colazione nella solita stanzetta dell'albergo. Tutti i giorni. Per tutta la durata del viaggio. Era vero che Alberto prediligeva le persone tranquille, ma non per questo dovevano essere noiose, anzi.
Quindi no, non se ne parlava: i trentenni avevano la testa altrove per la famiglia, i quarantenni per l'amante.
Certo, non puoi assumere solo ragazzini freschi freschi di laurea e titoloni sul cv (Product manager, data analyst, social mela manager...) che poi andavano in difficoltà ad analizzare una pivot su Excel.
E, in più, vedere i giovani che si battevano tra di loro tra sviolinate, favori e straordinari non pagati pur di ottenere il posto a tempo indeterminato era sempre stato eccitante per Alberto.

Ore nove e un minuto. Alberto aveva appena parcheggiato in via Navona trentaquattro, Milano. Si diresse all'ingresso dell'edificio col suo passo svelto, a tratti ridicolo viste le sue gambe corte ed il petto gonfiato da mesi di allenamento in palestra.
Dava l'dea di essere un tipo energico, iperattivo: anche se dormiva quattro ore a notte, il giorno seguente riusciva a mostrarsi brillante e pieno di idee. Si era vestito di corsa: indossava la sua camicia casual beige di Dolce & Gabbana infilata con cura nei jeans Levi's.
Entrò in sala break dove c'era la sua segretaria ad attenderlo.
Raffaella, quarantenne riccia biondo cenere, soprannominata - Valeria Marini - alle spalle dai colleghi per via delle sue labbra rifatte, stava sorseggiando il caffè vicino ad un plico di documenti.
– Buongiorno Albi – salutò sbattendo le sue lunghe ciglia. Lei era l'unica a poterlo chiamare con l'abbreviativo e dargli del tu, visti i dieci anni di collaborazione – I candidati, che ho scelto tra i trecento curriculum che ci sono stati mandati, ti aspettano nella hall. Li avrei fatti accomodare in sala tre ma c'era Giorgio con il gruppo design.
– Grazie, Raffi. Prendo un caffè al volo e inizio.
– Se hai bisogno fai un fischio. – la bionda atomica si voltò facendogli l'occhiolino.
– Mi verrebbe in mente un bel giochino in cui io fischio e tu arrivi.
– Ah. Divertente – rispose con un sorriso che celava disgusto.
Brava. Così ti voglio.

Simone Garovani. Classe novantadue. Si presentò in giacca e cravatta (era il venti maggio e fuori c'erano ventisette gradi) ed era visibilmente sudato.
– Piacere, Simone.
Mano bagnata.
Iniziamo bene.
Mentre Alberto prendeva tempo per leggere il suo cv, chiese al candidato di parlare di sé. Cercò falle nel suo cv: se si era diplomato nel duemila dodici (era stato bocciato un anno?) e si era laureato in Bocconi all'indirizzo Economia e management nel duemila diciassette, impiegò cinque anni per finire la triennale?
Dettagli. Dettagli fondamentali.
Che ad Alberto non sfuggivano.
Per lui, la scalata al successo di un uomo partiva dai calzini scelti il giorno del colloquio; la scalata partiva dalla postura, dal taglio di capelli e dalla fede calcistica: se sei tifoso della Juventus, per esempio, non ci sono speranze.
– Grazie, ora le parlo un po' della nostra azienda. Io sono Alberto Meroni, CEO di BestFour. Il nostro commercio è prevalentemente online: lavoriamo con supplier, realtà italiane ed internazionali, già consolidate nel campo della moda, elettronica ed intrattenimento. Il nostro catalogo è composto all'incirca da cinquanta mila prodotti (in realtà erano all'incirca ottantasette mila codici SKU attivi, ma probabilmente Simone non si era informato abbastanza sull'azienda per contraddirlo, o era semplicemente spaventato dall'idea di farlo). Siamo operativi dal 2001 e ad oggi...
La presentazione della società andò avanti per altri cinque minuti.
Lo sguardo scrutante del CEO stava mettendo in soggezione il candidato, tanto da farglielo distogliere.
Alberto non si sarebbe mai sognato di fare domande del tipo - dimmi tre pregi e tre difetti del tuo carattere - oppure - in questo cesto di mele, quali prenderesti per mangiarla? E perché proprio quella? - questi giochetti li lasciava agli HR recruiter che volevano mettere in difficoltà il candidato. A lui interessava la sostanza. Per questo gli aveva preparato un test in Excel. A suo dire, facilissimo.
Così chiese a Simone di accomodarsi col pc in un'altra stanza e, mentre Alberto avrebbe esaminato un altro candidato, iniziare il test.
Con quell'esame voleva capire se effettivamente il candidato conosceva il programma del pacchetto Office in maniera avanzata e intuire se la logica ed il ragionamento erano alla base del suo processo cognitivo o se era semplicemente una persona adatta ad eseguire ordini senza l'uso del pensiero.

Ore undici e quarantatré. Mancava l'ultimo della lista e poi sarebbe andato a pranzo con Luca.
Entrò dalla porta una ragazza giovane, capelli castani arrotolati in uno chignon che ne evidenziava i tratti delicati del volto. Portava una camicia di flanella a righe, pantaloni in jeans e scarpe aperte con un piccolo tacco.
– Piacere sig. Meroni, Alessia – dopo la stretta di mano, si accomodò sulla sedia.
Ripartì così la solita tiritera: Alberto che scrutava il cv del candidato (anche se frettolosamente stavolta, la fame iniziava a farsi sentire) e la sottoposta che parlava di sé.
– Ho appena finito lo stage in Marketing e comunicazione da Marsh Agency, dove ho potuto apprendere...
Alberto aveva notato che la ragazza teneva una postura sicura di sé per avere soli ventidue anni: non gesticolava per il nervoso e non si toccava nemmeno i capelli. E, osservandola meglio, la camicetta era probabilmente di una o due taglie in meno, visto che il davanzale le stava letteralmente esplodendo dal reggiseno. Si stava fissando sul bottone che teneva in piedi la struttura formale di quel colloquio: fosse saltato il bottone, l'aria si sarebbe fatta molto più calda.
Alessia accennò un sorriso alla domanda - cosa ti è piaciuto dello stage che hai fatto? -
– Beh, devo essere onesta: è stata la prima esperienza per me, ma ho capito quanto è importante avere un team affidabile e unito – disse grattandosi il labbro.
Il colloquio stava iniziando ad avere una strana piena. Alberto notò lo sguardo di Alessia rivolto all'anulare della mano sinistra. Non c'era la fede, Alberto aveva divorziato sei mesi prima. La ragazza sorrise. Tra una domanda e l'altra, Alberto capì che la persona di fronte a lui era un'abile giocatrice, e ne fu intrigato.
Del resto, chi lo conosceva sapeva perfettamente quali erano le sue passioni, e tra queste rientrava anche la gnocca.
La ragazza si era istruita sulla storia
dell'azienda ed aveva fatto domande intelligenti.
C'era un unico problema: la sua sessualità.
E, assumendola, avrebbe remato contro la prima regola che si era prefissato la mattina.
– Va bene Alessia, la vedo informata sulla nostra realtà e non può che farmi piacere. Ora le farò fare un test di Excel, ha venti minuti di tempo.
– Farò del mio meglio – rispose ammiccante.
– Troverà le indicazioni direttamente nel file che le sto per sottoporre.
Se sarai brava, ti potrei sottoporre sulla mia
scrivania.
In quel momento squillò il telefono.
– Carissimo pezzo di merda, dove sei? Ho un'ora esatta per mangiare con te e sei in ritardo di dieci minuti. – Alberto si voltò, colto alla sprovvista dall'appellativo volgare riservatogli dall'amico.
– Ciao Luca, mi devi scusare. Sto finendo l'ultimo colloquio. Cinque minuti ed esco.
Improvvisò con la candidata. Le disse che aveva una riunione urgente e che quindi, una volta finito il test, poteva avviarsi all'uscita e consegnare il computer a Raffaella.
Uscì dal suo ufficio e trovò Luca in corridoio a pavoneggiare con la segretaria.
Alberto era distratto: stava pensando ancora a quel bottone.
– Ci credi, Albi? Mi sta dicendo che quest'anno non va in ferie perché manca personale. Le ferie sono sacrosante, dico io. Se vieni a lavorare da me il mese di agosto rimaniamo chiusi, e in più non dovresti vedere la faccia del tuo capo tutti i giorni.
– Beh, pensa se dovesse vedere la tua, si metterebbe in malattia dopo un mese per la depressione.
I due risero e si avviarono all'uscita.
– Ma hai la pompetta in ufficio per gonfiarle le labbra ogni mattina?
– Zitto, che ha l'udito supersonico – gli diede una pacca amichevole sul coppino.
Già, Raffaella era abituata a commenti del genere. Se all'inizio le faceva piacere ricevere attenzioni di questo tipo, col tempo li aveva reputati maschilisti e misogini.

Il marciapiede del quartiere rispettabile nel centro milanese stava dando lavoro ad una nigeriana intenta ad accattare clienti per fare le treccine.
Alberto, che si era appena messo i Ray-Ban sugli occhi, li alzò sulla fronte inorridito da quella visione.
– Ma mica siamo a Rimini qua... – sussurrò.
Passarono davanti alla donna che esibiva il foglio plastificato sbiadito con i suoi ultimi lavori (o presunti tali).

Si era portata a - lavoro - anche i suoi cuccioli: il maschio era intento a far volare una versione giocattolo tarocca di Superman, la bimba invece stava allattando una bambola bianca.
– Uecapo!
Il tono di voce alto, indirizzato alla donna, la prese alla sprovvista.
– Ciau! Io fa trecine per sua moglie?
– Ma quali treccine. Fatemi una cortesia: andate da un'altra parte.
– Mi faccia favori, signore. Io devo laborari.
Che atteggiamento del cazzo. Laborari eh?
Mentre Luca gli consigliò di lasciar perdere visto che i minuti stavano passando e la pausa pranzo con loro, Alberto si incaponì sulla questione.
– Vuoi lavorare? Oggi è il tuo giorno fortunato. Ti do cinquanta euro per sloggiare da qui, te e i tuoi bambini.
La donna tentennò, ma non voleva cedere.
Sapeva bene che quella in zona ricca della Milano bene non avrebbe fatto grandi affari, ma un tentativo voleva comunque farlo.
– Non ti ho convinto? Te ne do cento, okay? – disse, aprendo il portafoglio, alquanto innervosito. Luca incrociò le braccia, alquanto a disagio. Non gli piacevano queste plateali buffonate.
– Cento euro ma mi dai i giocattoli dei tuoi bambini.
– No mamma, Superman è mio! – esordì il bambino.
– Prendere o lasciare – disse, rimettendosi i Ray-Ban sugli occhi.
– Non fare lo stronzo, andiamo. Scusalo.
Alberto fece opposizione, ma i muscoli di Luca ebbero la meglio e lo scardinarono dalla piastrella del marciapiede su cui si era fermato.
– Domani mattina la prendo e te la porto davanti la facciata del tuo lavoro.
– Fallo. Magari mi faccio anche fare le treccine.
La battuta stemperò la tensione, illuminando il volto di Alberto e facendogli sorgere un sorriso.
Christian Di Capri
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