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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Matteo Alberto Sabatino
Titolo: Madre tela
Genere Realismo Magico
Lettori 3168 25 51
Madre tela
Cambiare casa non è complicato, se non devi farlo. Se devi, chiedi aiuto, affidati alle persone giuste. Perfino Ercole, nell'affrontare le sue fatiche, da semidio quale fu, ebbe bisogno di una strategia orchestrata a tavolino, e del supporto di un alleato. La nostra impresa si chiama Chiria. Chiria Traslochi. E qui, a Roccapasco, per tutti, forestieri esclusi, il figlio del trasportatore, dell'alleato per uno sgombero rapido, sono io. Vittorio.
Ventitré anni fa la strada che percorrevo per andare a scuola era tappezzata di manifesti: enormi annunci dallo sfondo verde acqua, su cui mio padre sorrideva travestito da bagnino. Chi gli aveva suggerito di riempire il paese di una pubblicità così invasiva e patetica? Mi ritrovavo il suo faccione dappertutto. Trasloco completo in massimo cinque giorni. Questa dicitura ci poteva stare: era realistica, accattivante. Nulla da eccepire. Ma il corpo. Il corpo di mio padre, sull'affissione, era necessario? Stampato lì, riprodotto in serie, sui muri. Ogni mattina mi fermavo a guardarlo. Lo ricordo, il manifesto, nella sua interezza, per filo e per segno, lettera per lettera. Finanche la punteggiatura.
Non affogherai fra i tuoi mobili. Il salvagente sono io. Chiamami e arrivo subito.
E io, settenne gracile, non potevo sospettare che quella figura, incollata alle pareti di Roccapasco, simile a un ingombrante presagio, mi stesse rivelando cosa mi sarebbe capitato.

1.
I suoni della comunità che si rimette in moto. Sono loro la mia sveglia da quando mi sono trasferito. Bilocale. Primo piano. Le saracinesche del supermercato funzionano come primo avvertimento. La voce di Vincenzo, il giornalaio, è il secondo allarme. Le campane di don Carlo sono il terzo, e ultimo. Superate abbondantemente le sette, compiuti i rituali mattutini, esco. Ho meno di sei ore a disposizione.
E in strada, ora, è tutto un levare in aria le mani, per sventolarle. S'incrociano i saluti: alla mia destra, Gino della ferramenta fa un cenno a Claudio della tavola calda; di fronte a me, Ilaria bacia Cecilia sulla fronte; alla mia sinistra, Gaetano della carrozzeria accompagna a scuola suo nipote. Io, invece, mi blocco. Un pensiero m'inchioda. Rimuovo dalle mie spalle lo zaino, lo poso sul marciapiede. Il tiretto della cerniera scorre lungo i suoi binari, divaricando la stoffa. Sospiro di sollievo. La tessera blu c'è. Riprendo a camminare, il passo svelto per recuperare.
- Dove corri? - mi domanda Ilaria, mogia.
- Ciao, ciao. Vado là, lo sai - rispondo, il mio indice puntato verso la biblioteca.
Raggiungo l'ingresso. Striscio la tessera, le porte scorrevoli si aprono. Suona il metal detector. Un inserviente mi chiede di vuotare le tasche. Gomme da masticare, un mazzo di chiavi, spiccioli.
- Qui dentro ho dei quaderni. -
- Puoi andare. -
L'aria condizionata ficca nelle mie narici odore di pagine antiche. Lancio un'occhiata alla ricerca di un posto libero.
- Vittorio - bisbiglia una voce, dal gabbiotto.
- Settimia, buongiorno. Dammi solo un attimo - borbotto.
Il posto. Ne trovo uno accanto a un termosifone spento. Sistemo una matita e un notes sul banco, lo zainetto adiacente alla sedia. Sciorino un sorriso agli studenti limitrofi. Nessuno lo ha visto. Alcuni tengono i palmi sulle tempie, le dita sul cuoio capelluto. Un uomo incravattato sta sibilando incomprensibili parole. Mi alzo, e, ciondolante, arrivo alla postazione di lei.
- Settimia. -
- Sorridi un po' - dice.
- Dopo. Hai quello che ti ho chiesto? -
- Ce l'ho, ce l'ho - sussurra.
Schiocca le labbra: nel pulviscolo si forma un bacio che già s'è dissolto. Mi consegna il libro. Firmo per il prestito. Un pannello di vetro ci separa, e la cosa mi allieta. Abbozzo un ghigno, chino la testa per ringraziarla. Mi volto. Un passo, due, tre.
- Aspetta - dice lei.
Il suo tono stridulo mi gela. Non vedo l'ora di mettermi al lavoro. Rimango immobile, con il volume nella mano destra.
- Me ne stavo dimenticando. Il mio trasloco. Quando puoi? - domanda.
La lancetta dei secondi di un orologio da parete m'ipnotizza. Sfiora il numero quattro, poi il cinque.
- Vieni oggi pomeriggio. Verso le tre. -
Riprendo a camminare. M'accomodo. La mia caviglia destra sfiora lo zainetto, sorreggo il lapis con pollice, indice e medio. E il fluire del tempo diventa una cianfrusaglia impolverata, meno che niente a volerlo comparare all'organismo che nasce in me quando abbandono una pagina per la successiva; davvero nulla se paragonato alla creatura che cresce al fondo della mia coscienza mentre, con l'altra mano, ricopio un dipinto, un ritratto, sul quaderno. Il notes, in questo modo, comincia a prendere vita propria, a perdere il bianco; le righe, che quel bianco dividono, finiscono per assomigliare a un ingombro, seppellite da bozze, linee tutte mie, tratteggi vari, o comunque schizzi. È così che ci si sente quando siamo forti abbastanza per avvicinarci al nostro destino?
Le tredici in punto. Inizia il consueto stridio generato da strisciate di sedie sul pavimento, a cui segue una robotica, collettiva chiusura di mattoncini di carta stampata. Se si spende tanto tempo in un posto come questo, è probabile che si finisca per accorgersi di alcune cose: io, per esempio, ho imparato che questi mucchi di fogli rilegati vengono immediatamente sostituiti da frettolosi pranzi, viaggi in autobus, chiacchiere più o meno utili, e che la loro funzione è di restare latenti all'ombra della consapevolezza di chi ne ha fatto uso, seppur accatastati dentro le borse, tenuti sottobraccio, riconsegnati a Settimia, riposti nel settore d'appartenenza.
Valuto i miei bozzetti. Qual è il segreto per essere un vero ritrattista? Migro in direzione dell'uscita con questo tormento nella testa. Non è l'unico. Ce ne sono molte altre, di inquietudini, in fila per il proprio turno. Se questa coda esistesse sul serio, credo sarebbe indisciplinata, e magari identica al nervoso gruppetto che adesso, a venti metri da me, si sta assiepando intorno alla giovanissima collega di Settimia.
- È una tirocinante - mi sussurra all'orecchio un uomo.
Un suono caldo, non più forte di un alito. Riconosco la cravatta a pois.
- Come? -
- La ragazza che stai fissando - dice, e alza il mento. - Quella lì. -
- Ah. Mai vista. -
- Ci credo, ci credo - biascica lui. - È arrivata da poco. -
Mi lascio alle spalle la biblioteca, e l'invadenza degli sconosciuti, per correre a cambiarmi d'abito. Mentre percorro la via che mi riporta a casa, il sangue riprende il suo normale corso lungo le mie gambe non più anchilosate. E penso che vorrei fossero buffi e leggeri i pomeriggi della mia vita da trentenne, né più né meno delle salopette di jeans che indossano i personaggi dei fumetti impegnati in fantasiosi lavori manuali. Ad attendermi, invece, penzolanti dal minuscolo stendibiancheria, un paio di bermuda bianchi, e una t-shirt nera. Funerei e orribili. Su entrambi campeggia il mio cognome.
Uno scambio di cenni con il barbuto vicino di casa, la chiave nella toppa. Lo zainetto sdraiato sul parquet. Mantengo bassa la testa. Io so che sono lì, quei due indumenti, ora a settanta centimetri dal mio corpo, ma spero sempre che qualcuno sia entrato in casa mia per derubarmi della mia condanna. Eppure trovo il coraggio di sollevare gli occhi. Con pollice, indice e medio della mano destra verifico che siano asciutti. Mi dirigo verso la cucina. Giro la manopola della bombola di propano, riempio d'acqua una pentola, e le fiamme fanno il resto. Un attimo dopo l'ebollizione, poco più di trenta rigatoni si tuffano. Armato di forchetta, produco un vortice che li fa nuotare. Mi viene in mente Settimia, la sua richiesta. Le telefono.
- Sono di turno fuori, oggi. Con il camion - le dico. - Se vuoi, in sede c'è papà. Per i preventivi se la vede lui. -
- No, non fa niente. Anche dei sopralluoghi è lui il capo? -
Rido. - Non li facciamo, pensavo lo sapessi. Il cliente ci dà la lista delle cose da spostare, una specie di noioso elenco fatto di misure, stato di conservazione, e via dicendo. Potrei portarti il modulo su cui iniziare a scriverli, questi dati. -
- Stasera? - domanda, la speranza nella voce.
Assaggio. Scotta, ma è pronta. Al dente.
- Domattina. Va bene? -
Lei mi consegna un “sì” spento e infastidito, mentre io, con il cellulare sostenuto da orecchio e spalla, scolo la pasta, e i miei occhiali da vista s'appannano. Che posso risponderti, Settimia? La verità? Davvero? La verità è che dovresti ricordare che alle diciotto incomincio a lottare con le mie palpebre, vorrebbero chiudersi; con la mia schiena, implorante pietà; con i miei neuroni, che minacciano sciopero a oltranza. Tutta, tutta, la verità? Non sono certo le quattro ore di imballaggio, carico, spostamento, scarico, disimballaggio, il mio problema. La questione che mi addolora è il ripetersi uguale di una precisa sequenza, che è strettamente legato al mio disinteresse, ma che dico, al mio disgusto più sentito nei confronti di tutte le azioni di cui è possibile prevedere il seguito. Voglio dire, quando io posiziono la punta della matita sulla carta, non ho alcuna conoscenza di cosa stia per accadere. E il desiderio che mi anima ha a che vedere con l'ipotesi di infilarmi dentro una salopette di jeans, per incominciare il mio fantasioso lavoro manuale, per restarci.
- Scusami. Buona giornata. -
Una noce di burro. Una spolverata di parmigiano. Termino di mantecare i rigatoni. Mangio in piedi, direttamente dalla padella ancora calda. Fuori della finestra un refolo mette alla prova due foglie ingiallite, il loro attaccamento alla pianta madre. Le stoviglie finiscono nel lavello. Mi do una rinfrescata, rimuovo le mollette multicolori dai capi stesi, e mi vesto. Bermuda bianchi, t-shirt nera. Chiria Traslochi. Arrivo.

2.
Biagio siede lato passeggero. La visiera del suo berretto da baseball è lisa, segnata da uno squarcio orizzontale.
- Verde - dice.
- Come? -
- Il semaforo. Puoi andare. -
Il mio piede destro esegue. Lo smartphone, stabilizzato sul parabrezza da una ventosa, ci suggerisce di svoltare a sinistra alla prossima rotatoria.
- Non ascoltarlo. Per Aquaia facciamo prima di qua - sentenzia lui.
- Sicuro? -
- Chiaro come una spremuta di limone. -
- Una spremuta di limone. Cioè? -
- Non lo so. L'ho sentita alla radio, 'sta frase. -
Giro a destra, seguendo le sue istruzioni, e piombiamo in un viottolo microscopico a doppio senso di marcia. Una Renault Clio gialla ci si para davanti.
- Bella strada - dico, a voce bassa, iniziando la retromarcia.
- Perché non hai aspettato che la facesse lui? -
- Cosa cambia? -
- Cambia. A lui veniva più facile, noi stiamo in questo dinosauro. Abbiamo la precedenza. -
- E dove sta scritto? -
- Nel codice della strada. E del buonsenso - chiosa Biagio.
- Esiste un codice del buonsenso? -
Il conducente dell'auto ci ringrazia con un leggero colpo di clacson. Tempo dieci minuti e raggiungiamo la nostra destinazione.
- Salite - fa una vocina.
Uno, due. Tre. Quattro. Niente. Il pulsante dell'ascensore non s'illumina. Le scale. Sull'uscio dell'appartamento una bambina bionda, con il caschetto, avvolge nella mano sinistra una barretta di cioccolato.
- Venite, signori. Mamma sta nel letto. -
- Grazie, piccola. Aspettiamo qui fuori - dice Biagio, il tono sereno. - Chiudi la porta. -
- Spero che si sveglia - mormora lei.
Non l'ha chiusa, la porta, probabilmente perché le ispiriamo fiducia, o perché sua madre le ha parlato bene di noi, di quei due omoni che sarebbero venuti a rubarle l'armadio e il letto e la scrivania; il comodino rimarrà ancora per un po', potrebbe dirle domani la mamma; che ci faccio se non ho il mio lettino, l'eventuale risposta della figlia; e la mestizia m'assale ogni pomeriggio, non c'è n'è uno, di cliente, che sorrida per il nostro lavoro, quindi mi domando che senso abbia fare qualcosa che tolga e non aggiunga. Per non parlare dell'istante in cui carichiamo anche l'ultimo, insignificante mobiletto, lacrime a cascata, e noi a far finta di nulla, a sembrare statue di cera, con la regione cervicale infiammata; li vediamo, Biagio e io, mentre solleviamo il loro passato per piazzarlo sul camion, per spostarlo nel futuro; però sappiamo tutti cosa succede da quel momento in poi, che il mobile della casa vecchia si porta appresso l'alone del domicilio abbandonato, di quelle storie dannatamente assurde che faremmo meglio a tenere segrete, quelle che il solo tentativo di raccontarle renderebbe irreale il pensiero di averle vissute in prima persona. E ognuno di loro vocifera mille raccomandazioni: è frangibile, fate particolare attenzione alla credenza in cucina, non strisciate da nessuna parte, abbiamo ritinteggiato da una settimana, non vorrete mica dover dare una mano di pittura per rimediare al casino.
Biagio si gratta sui capelli bianchi, i fogli della lista usati al posto delle unghie. Sotto i miei piedi, uno zerbino azzurro antiscivolo.
- Ce la facciamo in due ore? -
- Vediamo - risponde, - forse sì. Il menu di oggi: due tavoli, una decina di sedie, sei, no, che dico, sette quadri, una lavatrice, una coppia di divani Chesterfield, tre cassettiere. -
In casa qualcuno ciabatta verso di noi.
- Prego, accomodatevi - scandisce una voce mezzo addormentata, - vi stavamo aspettando. Scusatemi. -
Biagio alza la mano, abbassa la testa, il braccio sinistro ad arco, stretto al petto insieme all'elenco dei mobili. Entra. Lo imito.
- Ginevra, piacere. Sono in pigiama, sì - ride, - ma voi non fateci caso. Dalia vi ha accolto bene? Cominciate. Cominciate pure. -
Sei di bruciante bellezza anche così, penso. Vorrei ritrarti, prosegue il mio pensiero, libero e voluttuoso, mentre le stringo la mano. Pennello, matita. Scegli tu.
- Vittorio Chiria. Piacere mio. Iniziamo sul divano? -
- Sul divano. Che intende? -
- I divani, iniziamo dai divani. Prendiamo quelli per primi - interviene Biagio.
- Ah, sì, certo. Fate, fate. Io vado a vestirmi. Ti va di vedere come i signori spostano le cose? -
- No - risponde Dalia.
Ginevra s'abbassa quanto basta per sussurrarle all'orecchio sinistro una promessa che non sentiamo, ma che vediamo lampeggiare negli occhi della bambina.
- A dopo. Se avete bisogno, avvertitemi. Tra poco metto a fare il caffè. -
Se ne va. Dalia si frega i palmi, e non ci molla per un attimo.
- Resta in casa - le dice Biagio, il tono cortese, - non c'è bisogno che ci segui anche per le scale. Rischi di farti male. -
- Non posso, signore - risponde, scendendo i gradini, uno per volta, lentamente, - se continuo a guardarvi, io avrò un premio. -
- Che premio? - domando, mentre cammino all'indietro.
Il peso di metà lavatrice testa la forza dei miei avambracci. Silenzio. Dalla fronte di Biagio, gocce di sudore atterrano per lasciare un volatile segno del nostro passaggio, come Pollicino e le sue molliche di pane. Tra poco torniamo su. Per l'ultimo imballaggio della giornata. L'ultimo carico.
- È un bel premio? - insisto io.
Affianchiamo la lavasciuga a un tavolo, all'interno del camion.
- Sì. Una lavagna. E i gessetti azzurri, rosa, gialli, viola. -
- Bianchi no? - chiede Biagio.
- Anche bianchi. -
- Perché i gessetti, e non i pennarelli? - chiedo.
Il mio dito sul pulsante dell'ascensore. Uno, due. Tre. Niente.
- Sono diversi, signore. Non funziona da mesi - commenta lei, indicando la mia mano innervosita. Ho il fiatone, ci sediamo a terra. Biagio, in barba ai propri polmoni, esce per fumare.
- Scusami. Dicevi che i pennarelli non sono belli come i gessetti. -
- No, non lo dicevo, signore. La bellezza non c'entra. Dei gessetti mi piace che li vedo che finiscono, che all'inizio sono lunghi e forti, poi si indeboliscono, si spezzano. Quando disegno non posso sapere se il gessetto sta per rompersi. Sai che penso, signore? Che il disegno è il gessetto. I pennarelli non sono così, loro hanno il tappo sulla testa. Non respirano spesso. A volte vado a prenderli, tolgo il tappo, e li trovo scarichi. -
Le mie scarpe sudicie, impolverate. Il sudore che s'asciuga sulla pelle.
- Puoi chiamarmi Vittorio. -
Il mio anziano collega ritorna appesantito dal puzzo di tabacco. Saliamo, calmi. Un sorso di caffè. Imballiamo con cura i quadri, mentre Dalia si diverte a far scoppiare le bolle degli involucri trasparenti. Imbracciamo i dipinti, e usciamo di casa.
- Mi avvio - dice Biagio, e prende le scale.
Uno, due. Tre. Il pulsante s'accende. Sulla soglia dell'appartamento, Ginevra e Dalia. La porta dell'ascensore scorre. Accetto il suo invito a entrare. Mi volto.
- A domani, signor Vittorio. -
La loro nuova abitazione odora di fragole. Me ne accorgo solo adesso che stiamo avvicinando una cassettiera alla parete. Biagio lamenta un dolore, io volo in bagno fiducioso che ci sia una saponetta. La speranza viene ripagata. Il lavabo si colora di nero, e ne approfitto per bagnarmi nuca, fronte e capelli. Filtra dalla finestra un miagolio. Mi affaccio per cercarlo, il gatto, ma non trovo nulla. Il mio orologio da polso emette uno squillo ripetuto: le diciotto.
- Cosa manca? - grido.
- Lavatrice! Quadri! - risponde lui.
Sfodero dalla tasca la piantina che Dalia ha disegnato per noi. È precisissima.
- Va portata qui, in bagno, la lavatrice. -
- Lo so. Vieni - strilla, - non perdiamo tempo. -
Affastello i quadri sul Chesterfield due posti. Biagio collega l'elettrodomestico all'impianto idraulico. Giro due volte la chiave nella toppa, lui mi rifila una pacca sulla spalla.
- Dai, che ce la fai - mormora.
- Perché hai allacciato la lavatrice? -
- Per aiutare. Perché se no? -
Raggiungiamo il camion. Il tratto di strada che unisce Aquaia e Roccapasco si svela per quello che è per me, qualcosa che vorrei finisse presto.
- Quanto durerà questo qua? - domando.
Lui recupera i fogli. Si prende un momento per leggerli. - Una settimana. Se non ci addormentiamo, cinque giorni. -
Parcheggiamo di fronte alla sede. Gli consegno le chiavi della vettura.
- Dove vai? - mi chiede.
- A casa. Tu? -
È una bugia. Ogni mio passo ha una direzione: la chiesa della Natività di Maria. Salgo, due alla volta, i diciotto gradini che precedono l'ingresso. Alla mia sinistra, le fronde di un maestoso pino mi proteggono dagl'ultimi raggi caldi della giornata. Di fronte a me, don Carlo, che mi chiama a gran voce. Il mal di testa fluttua via, come se vedere il prete funzionasse alla stregua di un analgesico biologico, vitale.
- Entra, Vittorio - dice. - Entra. -
Le mie scarpe luride. Le nota anche lui. Sorride, scrolla la testa: è il suo lasciapassare. Abbasso la maniglia della porticina del confessionale, e mi accomodo. Attraverso la grata arrugginita, il suo respiro pesante. Con il dorso della mano destra lancio giù dalla mia fronte una manciata di gocce di sudore. Alcune restano attaccate alle mie nocche, sbrilluccicanti al buio.
- Come stai? -
- Bene. Sto bene - sussurro.
- Trascorri le tue giornate praticando la pace, Vittorio? - mi domanda, il tono cordiale.
- Ci provo, questo sì. Anche se credo di non aver capito cosa significhi. -
Tossisce. Poi risponde:
- Tutti gli uomini della Terra sanno perfettamente cosa la pace sia, e conoscono intimamente la maniera per metterla in pratica. Hai un momento di dimenticanza. Succede. Succede, Vittorio, di dimenticare qualcosa. Vedi, Vittorio, ti svelo un segreto. Lo vuoi sentire, questo segreto? -
- Sì - rispondo. Vorrei domandargli un bicchier d'acqua, ma desisto.
- Ti sei mai chiesto perché ci si confessi in questo spazietto angusto? Lo sgabellino poco confortevole su cui siedi, per esempio, pensi sia frutto di una scelta casuale? -
Busso sul legno di cui è fatto. - Non so. -
- Non lo è. Casuale, voglio dire. Nulla di questo momento è stabilito dal caso. Da centinaia di anni i credenti entrano nei confessionali. Molti fra loro presumono che siano semplicemente dei luoghi minuscoli in cui le parole dei propri peccati sono più facili da pronunciare. E in parte è così. Ma io ho un'altra teoria. -
- E quale sarebbe? Mi scusi, parroco, potrei avere un po' d'acqua? -
Don Carlo mi lascia per un lunghissimo minuto dentro le tenebre, e ne approfitto per spiare fuori. Apro la piccola porta quanto basta per respirare, e vedere Luca, il figlio del calzolaio, inginocchiarsi, giungere le mani.
- Ecco a te - dice.
Giù d'un fiato. - Mi scusi per l'interruzione. Continui. -
- Tranquillo. Dicevo che il confessionale ha un scopo diverso, anzi ulteriore, a mio parere. La mia esperienza mi insegna che chi viene qui vuole sentirsi fisicamente al buio, anche soltanto per pochi minuti. Scomodo, come il suo animo in subbuglio. Stretto, con l'ossigeno che a stento basta. Chi viene qui vuole ricordare a se stesso che esiste un luogo nel mondo esattamente uguale a come si sente dentro. -
- Uguale a come ci si sente - scandisco. - E dopo? -
- Intendi quando si scorrono i grani del rosario fra le dita, prima di addormentarsi? Le preghiere fanno bene, figliolo. Ma è più importante il momento in cui si esce da qui, l'apertura della porta, il ritorno alla luce. È quello l'istante decisivo, foriero di una rinnovata consapevolezza: esisterà sempre un posto identico alle angosce che abitano il proprio cuore. Non trovi che sia confortante poterci tornare, Vittorio? -
Ci congediamo. Continua ad aiutare tuo padre, insisti nel disegno, mi dice, la prima attività aiuterà il tuo spirito a crescere, la seconda ti terrà agganciato alla vita per come tu, Vittorio, la concepisci. Segno della croce. Assegno per casa. Un venticello scuote l'albero alla mia destra, ora illuminato d'arancione, mentre, passo dopo passo, raggiungo la fine della scalinata. Un effluvio fresco, mezzo estivo mezzo autunnale, s'attacca alle pareti delle mie narici, e affianca l'immagine che si forma nella mia mente: il mio corpo percorso dalle bollenti gocce della doccia, la spugna rossa imbevuta di bagnoschiuma, i capelli disordinati, ancora un po' castani, certamente bianchi di shampoo. Dietro di me, il sole delinea un arco perfetto, frutto di un movimento antico, netto come le linee disegnate da Dalia.
Rincaso. Sul tavolo in cucina, il volume d'arte, aperto. Ho un mese, penso. Se Settimia sarà flessibile, continua il mio pensiero, forse potrò tenerlo qualche giorno in più. Prendo a sfogliarne le pagine, prestando attenzione alle espressioni dei volti di ciascun ritratto. In tutto sono tredici, ognuno corredato di otto-nove pagine di commento tecnico. Il contorno delle spalle conferisce alla figura una tridimensionalità... Squilla il cellulare.
- Pronto. -
- Vittorio. Sto venendo da te. -
- Da me. Ah. Ma io devo ancora lavarmi. -
- E che fa. Ti aspetto giù - conclude lei.
La mia previsione viene sconvolta: lo scaldabagno ancora spento, l'acqua fredda mi fa rizzare i peli delle braccia, lascio perdere la spugna rossa, strofino frettolosamente il mio corpo direttamente con le mani inzuppate di sapone, lo shampoo cola dalle mie orecchie neanche fosse albume. Asciugo i capelli frizionandoli con il cappuccio dell'accappatoio celeste; i calzini neri, le mutande bianche, un paio di pantaloni, quali? Quelli verdi. Una camicia blu a righe arancioni. La cintura di cuoio. Mi pettino. Uno sguardo alle condizioni in cui versa il bagno, un altro allo specchio; come mi sono conciato? Scarpe da ginnastica. La chiave di casa nella toppa.
Non poteva aspettare fino a domattina?

3.
Il castello feudale “Filocaudino” torreggia su di noi. In equilibrio sul palmo della mano sinistra di Settimia, due cartoni bianchi, rettangolari. La scritta Grazie per averci preferito sui quattro lati.
- Hai già mangiato? - domanda, la voce sicura, gli occhi fissi nei miei.
Scuoto la testa. Seduti su una panchina di marmo grigio, addentiamo all'unisono la punta di un triangolo di pizza tiepida. Fra i miei piedi, due bottiglie di vetro in una busta di plastica.
- Anche tu hai sete? - chiede.
I tappi delle birre saltano, planano per un istante prima di atterrare sui sampietrini. Li raccolgo.
- Posso tenere il libro per un paio di mesi? - sussurro, passandole una bottiglia.
Le sfioro una guancia con le dita bagnate di condensa.
- Hai la mano fredda. Due mesi. Che devi farci? -
- Mi aiuta con il disegno, i ritratti - dico. - Se non si può, andrà bene un mese. -
- È imbottito di terminologia accademica - sentenzia. Un sorso scende lungo la sua gola. - In che modo ti aiuta? -
Intorno alla debole luce del lampione svolazzano moscerini e zanzare. Lei aspetta la mia risposta, inclina la testa a sinistra, si tocca il labbro inferiore appena velato di farina. Appallottolo il contenitore di cartone, mi rimetto in piedi, e oriento il mio sguardo alla ricerca di un cestino.
- Butti anche questo? -
- Sì. Ora, però, vado. -
Annuisce. - Passi domani? -
- Certo. Buonanotte. -
Inizio a muovere le gambe, mi sento appesantito. Sei ancora dietro di me, Settimia? Allungo la falcata. I resti della nostra cena finiscono in un cassonetto, lì dove già giaceva putrefatta la nostra relazione. Sul marciapiede opposto, Lucia a spasso con il suo barboncino. Si avvicina, mi ricorda della comunione di suo figlio. Mi chiede se andrò, le rispondo “certamente”. Le ventitré, dice lo squittio del mio orologio. Il portone del mio palazzo a trenta metri. Le chiavi. Le chiavi? Tasca destra, sinistra, a terra, saranno sicuramente cadute a terra, cammino a ritroso, devono essere qui, ora giro l'angolo e le trovo, come faccio, l'adrenalina circola rapida; penso a don Carlo, ai posti bui; non si vede nulla, illuminatele, le strade, maledetti; come ha detto don Carlo? Il conforto è tornare nei posti bui? Era così? Settimia? Settimia. Le ha lei. Cellulare.
- Settimia, Settimia. Non trovo le chiavi di casa. Le hai tu? -
- Le chiavi. Aspetta. -
Spingo lo smartphone sull'orecchio, il mento alto a pregare la luna.
- No - risponde, - non ho niente. -
- Sei sicura? -
- Ovvio. Ho svuotato la borsa. Non me le hai mai date, le tue chiavi, Vittorio. -
- Puoi ricontrollare? - chiedo.
Nessuna risposta.
- Settimia? -
Ha riattaccato. La torcia del mio cellulare getta luce sulla strada che ho percorso. Un uomo stempiato, sulla cinquantina, si ferma a domandarmi se ho perso qualcosa. Lo fulmino con le pupille.
Il tempo si è fermato, la sfida è fra me e la strada che mi separa dalla panchina di marmo su cui ci siamo seduti per cenare; riacquisto vitalità, la serata all'improvviso trova il suo senso nella sopravvivenza; lo scopo diventa riuscire a dormire nel mio letto, non sia mai che io finisca per telefonare a mio padre per confermargli la sua opinione su di me.
Circumnavigo la piazza dove ci siamo fermati a mangiare, a bere, sì, lì abbiamo bevuto le birre, che brutto tornare a visitare un posto in cui hai vissuto qualcosa, sembra di vedere la scena dal di fuori, lì ero seduto io, là lei, toccare la panchina come fosse la tomba di un istante, un istante di cui sei stato protagonista, e ora solo uno spettatore miserabile e senza casa, dov'è il mio mazzo di chiavi? E rivedere quello che è stato può aiutare, io ho morso la mia pizza, lei la sua; lei aveva sete, io ho aperto la bottiglia, ho usato una chiave.
Quindi sono qui, a terra, vicino alla panchina. No, non ci sono. Dario del ristorante mi squadra, che combini? Mi chiede; gli spiego la situazione, mi offre di dormire da lui; grazie, Dario, ma ora si tratta di una questione privata: m'accuccerò davanti alla chiesa della Natività di Maria se sarà necessario, e il parroco domani mi sveglierà dicendo:
- Che stai facendo? Hai perso il senno? -
Ma oggi. Che diceva oggi, don Carlo? La frase affiora alla mia memoria: esisterà sempre un posto identico alle angosce che abitano il proprio cuore. Non trovi che sia confortante poterci tornare, Vittorio? Quanto sono stupido. Correre. Corro. Sono un concentrato d'orgoglio e stanchezza e batticuore, finché non lo raggiungo.
Il cassonetto. Mi ci tuffo dentro, il fetore ottunde due sensi: vista, olfatto.
La busta fra le mie mani. Le chiavi tintinnano al suo interno, sbattono contro il vetro delle bottiglie. Esco fuori da lì, lo sguardo intimorito, guardingo nemmeno fossi autore di un furto. L'intenzione di una doccia meritata, rinvigorente si posiziona a cavallo dei miei pensieri.
Illuminatele, le strade, maledetti: quanto costano due lampadine? Le saracinesche del supermercato abbassate, l'edicola chiusa. Una voce familiare erompe dalla semioscurità, sotto casa.
- Le hai trovate. -
Saliamo su per le scale, lei usa pollice e indice per serrare le narici. Entriamo. Mi svesto, gli indumenti in lavatrice, pure le Sneakers, gradi novanta, due misurini di Omino Bianco al profumo di Lavanda.
Settimia accende una candela Patchouli, poi il televisore. L'acqua calda scende lungo le mie spalle, i capelli un po' bianchi, ancora castani, la spugna rossa a lavar via il puzzo inconfondibile di marcio, la paura di dare un colpo secco al rubinetto, per chiuderlo, per chiudere, per iniziare a fare sul serio, per comprare album, tela e pennelli e colori, per traslocare da questa vita; paura di sognare che la versione di Vittorio Chiria che detesto sia rimasta lì, all'oscuro, accanto alle buste biodegradabili zeppe dell'immondizia di tutto il quartiere; paura di azzerare, di ricominciare, di dire a mio padre che non muoverò più un mobile in nessuna provincia dell'emisfero, di consigliargli di vendere, di liberarmi di una responsabilità che non ho scelto, di questo carico che pende; paura di uscire dal bagno, di dire a Settimia che il volume d'arte non mi serve per i commenti, né per le figure; paura di ammettere che mi serve, quel libro, per raccontarmi la storia che mi fa addormentare, la favola che inizia con i miei occhi concentrati sulla staticità della tela vuota, e sull'immobilità del soggetto che sto ritraendo. La stessa favola che termina con il movimento del mio polso sul quadro, i ritocchi finali da dargli.
Settimia sul sofà, le braccia conserte. - Va un po' meglio? -
- Sì - rispondo, l'asciugacapelli in azione. - Dormi qui? -
- Se vuoi - urla.
- E domani? -
- Domani che? -
- Lavori. Devi svegliarti presto - dico, a volume alto.
- Quindi? -
- Quindi nulla - replico. - Resta pure. -
Torno in bagno. - Dovrei rasarmi - mormoro allo specchio.
M'infilo nel pigiama di cotone, grigio, fresco di stiratura. Ma il televisore si spegne. La porta di casa cigola. Si chiude. Se n'è andata. Recupero il libro dalla cucina. Lo tengo sottobraccio, e viene a letto con me. Gli occhiali da vista sul naso, la fioca luce dell'abat-jour alla mia sinistra, i visi dei dipinti in penombra, sulla carta, appena visibili fra le mie mani. Il cuscino diventa via via più comodo, finché la mia nuca imperlata di sudore non ci sprofonda dentro. Una falange del mio pollice pigia il tasto della lampada. Sopra le lenzuola giallo paglierino un volto di donna resta illuminato dal chiarore di questa luna spezzata a metà.
Matteo Alberto Sabatino
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