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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Manuale di pubblicazione Amazon KDP. Sempre più autori emergenti decidono di pubblicarse il proprio libro in Self su Amazon KDP, ma spesso vengono intimoriti dalle possibili complicazioni tecniche. Questo articolo offre una spiegazione semplice e dettagliata delle procedure da seguire e permette il download di alcun file di esempio, sia per il testo già formattato che per la copertina.
Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Autore: Paolo Schneider Graziosi
Titolo: Le onde viaggiano libere
Genere Diario di viaggio autobiografico
Lettori 3134 28 54
Le onde viaggiano libere
C'è stato un tempo in cui sono stato capace di surfare belle onde ma poi, senza un motivo valido, ho smesso. Troppo lavoro, troppo allenamento, troppa fatica, troppo freddo, troppe scuse buone, la lei di turno che si annoiava sulla spiaggia e mi faceva venire i sensi di colpa anche se diceva:  - No tranquillo, tu vai. Vuoi andare? Vai, io sto qui sulla spiaggia a leggere un libro, tu vai tranquillo - . E io ero sicuro che l'avrei pagata, che sarebbe arrivato il momento in cui mi avrebbe rinfacciato le ore passate sulla spiaggia ad aspettare anche se, a dirla tutta, ma chi gliel'aveva chiesto di aspettare lì ad aspettare col suo schifo di libro? Ed è così che mi sono negato il surf per tanti anni.
Poi è arrivato un martedì in cui avevo fissato un appuntamento dal doc, guarda caso surfista anche lui. E così, mentre mi stava facendo un'ecografia, si è parlato di onde e fantastiche avventure da vivere, poi a un certo punto mi ha detto:
- Ecco, questo non volevo vederlo - .
- Ah - .
- Hai da fare venerdì? - .
Silenzio.
- Be', qualsiasi cosa abbia da fare mi sa che la risposta giusta è no - .
Ecco, poi il venerdì è diventato un lunedì, ma la sostanza non è cambiata. Nella mia vescica c'era un tumore.
 
La malattia ti costringe a pensare e a rimettere le cose al loro posto.
Le priorità innanzitutto. Il pensare più a se stessi. Abbandonare le sovrastrutture. Spogliarsi dei pudori. Essere più egoisti. Lasciare a casa la lei di turno quando vuoi stare da solo e io, in finale, sono un solitario. Si nasce da soli, si muore da soli, questo non lo dimentico mai.
La malattia ti cambia la vita così, senza un preavviso. Magari hai un piccolo interrogativo perché hai visto qualcosa che usciva dai soliti schemi – nello specifico un po' di sangue nelle urine – o magari non avevi visto nulla, solo un controllo di routine. Quello che è stridente è la differenza tra il prima e il dopo. Entri in uno studio medico così, tranquillo, senza grosse paure, pensando che sì, c'è stata questa cosa ma figuriamoci sarà una roba da nulla, anzi, è già tutto a posto forse me la potevo pure evitare questa visita ma in fondo per stare più tranquillo la faccio, anzi, non è che sono io che devo stare tranquillo sono tutti gli altri che così si mettono l'anima in pace e va bene così...
Entri tranquillo ed esci che la tua vita è ribaltata come un calzino. L'appuntamento importante che avevi nel pomeriggio vale meno di zero. Il lavoro fondamentale che dovevi chiudere in ufficio così fondamentale non è, anzi, è lontano un milione di miglia e tutto sommato vedi che anche la tua presenza sul lavoro non è così indispensabile come ti avevano fatto credere fino ad allora.
Nel mio caso, dopo la visita, con il doc siamo scesi al bar e ci siamo seduti al tavolino. Lui caffè, io un succo di frutta ché avevo bisogno di zuccheri per rimettermi un po' su. La gastrite era dietro l'angolo e la caffeina era meglio evitarla.
- Senti - mi ha detto, - io con i pazienti parlo chiaro e con te parlerò ancora più chiaro - .
- Dimmi - .
- Non si muore. Questo lo devi sapere. Anche nel caso più grave di questo tipo di patologia, lo devi sapere. Ti opero, faccio una bella pulizia, poi vediamo che tipo di tumore è e come agire in seguito. Può darsi dovrai fare una chemio ma può darsi pure di no, dovremo aspettare il risultato dell'esame istologico - .
- Va bene - .
- E poi da quello che ho visto c'è solo una neoplasia. Vedremo durante l'operazione, ma per esperienza ti dico che mi sembra superficiale - .
- Vedremo - .
Non sono stato di molte parole, lo ammetto. In testa avevo una tempesta che l'uragano Katrina in confronto era una piacevole brezza mattutina. Un vorticare di parole, figure, pensieri, immagini che si sovrapponevano le une alle altre senza un filo logico. Non è stato un bel momento, però ho notato subito una cosa. Una volta, molti anni prima, feci delle analisi del sangue perché avevo una febbre persistente che non andava via. Una febbretta stupida, la sera saliva a 37,2 o poco più, niente di che, ma non passava. Ricordo perfettamente il momento in cui ritirai i referti delle analisi e sul marciapiede fuori dal laboratorio lessi una serie di “positivo” nella colonna di destra. Avevo preso l'epatite B, non era uno scherzo. Lì sentii di avere qualcosa di marcio dentro, come se il corpo mi fosse nemico, come se mi remasse improvvisamente contro e andando a cozzare contro la mia volontà razionale.
Stavolta no.
Avevo un tumore ma il mio corpo era con me. Ne saremmo usciti insieme, vincenti. Questo lo sapevo. Avremmo remato nella stessa direzione, avremmo affrontato l'operazione e la degenza con determinazione per tornare a essere padroni della nostra vita. Io e il mio corpo.
Per l'operazione ho scelto l'anestesia locale, la cosiddetta spinale, perché così mi sarei ripreso prima nel decorso post operatorio. La sala operatoria era pronta ed erano tutti lì, il doc e gli assistenti, ad aspettarmi. L'anestesista “se credeva sto cazzo” si direbbe dalle parti mie, è arrivata in ritardo, non ha chiesto scusa a nessuno, ha domandato, ha fatto firmare un foglio, poi ha cominciato a sentire le vertebre sulla schiena, ha infilato l'ago, ha iniettato e se n'è andata. L'effetto della spinale, lo dico a scanso di equivoci, è orrendo. Le gambe diventano qualcosa di irreale, toccarle è come mettere la mano su un morto. Una sensazione a dir poco sgradevole. Ho ansimato e mi sono sentito a disagio.
- Vuoi essere sedato? - ha domandato il doc.
- Sì - .
Wow, a saperlo prima... era morfina? Qualche altro tipo di oppiaceo? Non lo so, ma è stato un gran bel trip. Ho assistito alla mia operazione guardandola in un video montato in alto nella camera operatoria. L'intervento alla vescica ora si fa così. Ti infilano un cannello senza tagliare, quindi dall'unico buco presente sul davanti. Questo cannello in cima ha una telecamera, una lampadina, un cucchiaino tagliente e come se non bastasse riempie d'acqua la vescica. Il doc lo muove e guarda in un monitor al plasma come se stesse giocando a un videogame, solo che il campo di battaglia sono io. Ma alla fine, grazie anche alla sedazione, l'operazione è stata una passeggiata.
Quello che è meno divertente è quando passa l'effetto della spinale, parecchie ore dopo. Il catetere, le cicatrici interne e tutto lo sconvolgimento che c'è stato si fanno sentire tutti insieme. Una dose massiccia di Toradol non te la nega nessuno.
Una settimana di ospedale, due a casa per ricominciare con piccole passeggiate di cento passi, poi duecento, un quarto d'ora, un chilometro e sempre più. E maturo l'idea di ricominciare con qualcosa di mio, di andare a cercare i miei desideri profondi e dargli vita. E penso che cominciare con il surf sia il primo piccolo grande passo della mia ricorstruzione.
Perché un giorno ho smesso? So che dovrei fare un doloroso esame di coscienza e che la risposta è stata già scritta qualche riga più sopra – priorità, sovrastrutture, lei di turno – ma ora non posso affrontare un viaggio interno così complesso, ci devo arrivare per gradi. Ora posso iniziare a tornare sulle onde.
Il mio doc mi ha girato un suo contatto e mi sono aggregato alla sua scuola che fa base al Castello. Quel sabato, quello della mareggiata poderosa, lui è andato alle 9.30, io alle 15. Perché il surf è una pratica individuale anche se si fa in gruppo. Si chiacchiera, ci si incita, ci si strilla e ci si sbatte addosso soprattutto se si è principianti.
Sono arrivato al Castello poco dopo le 13 e ho incontrato il doc che usciva. Stanco, sfatto, gli occhi gli brillavano perché aveva preso quattro onde e le condizioni del mare erano notevoli.
Mi sono seduto sulla spiaggia a osservare gli altri in acqua. Se non fosse stato per il leggero odore di putrido, caratteristico del Tevere, che anche a 60 km di distanza si fa sentire, avrei potuto essere davanti a uno di quei fantastici spot oceanici con sole a palla, assenza di vento, sabbia dorata e onde lisce di mare in scaduta alte un metro e anche più. In quelle due orette sulla spiaggia ho visto la marea ritirarsi lentamente, le onde calare e diventare più ordinate, regolari.
- A perfect day to learn - mi disse Conrad a Big Island, Hawaii, circa quindici anni prima. Conrad era un californiano, sosia di Brad Pitt. Alto, biondo, abbronzato, fisicatissimo, con una piuma di uccello tatuata su un braccio. Di giorno faceva l'insegnante di surf, la sera suonava la chitarra in un locale. Progetti sul futuro zero. Penso ancora che l'ultimo dei suoi problemi fosse quello di trovare ragazze disponibili. Ho fatto con lui una lezione per capire come fosse il mare hawaiano, le correnti locali, le maree, il fondale e tutto il resto. L'ho scelto come guida spirituale per farmi entrare nel grande oceano Pacifico.
- Ci sono squali qui? - .
- Sì, ma sono piccoli -  rispose con un eloquente gesto della mano come per dire che non era un problema.
Mi piaceva questo approccio molto filosofico.
Cerimonia di vestizione, riscaldamento e simulazione di take off – la manovra di alzarsi in piedi sulla tavola – dentro l'ufficio. Mi sentivo ridicolo ma è stato uno di quei momenti in cui ho vinto le sovrastrutture e i pudori. Stare sdraiato per terra in una baracca a muovere le braccia come un naufrago. Ma volevo la mia onda hawaiana, fare questa esperienza.
Uscimmo poi [con le tavole e ci portammo sulla line up, dove l'onda frange e comincia a essere surfabile. C'eravamo solo noi. Dopo una breve attesa vidi l'onda e sussurrai: - Here we go - . Girai la tavola con la prua verso riva e l'onda mi passò sotto. Mancata.
Tornai indietro pagaiando scornato, Conrad mi spiegò che avrei dovuto muovere le braccia con più energia, aggredire l'onda. Ne arrivò un'altra: - C'mon - . Cominciai a pagaiare prima ancora di sentirla. - Paddle, paddle, paddle! - mi incitò Conrad, sentii la sua voce allontanarsi, l'accelerazione, vidi la schiuma dell'onda a destra e sinistra, come una manina che mi stava portando. Non ci potevo credere, l'avevo presa. Feci il take off e rimasi in piedi. L'onda era bellissima, hawaiana, piccola ma potente, la più bella di tutte, la più bella di sempre. Mi portò giù per decine e decine di metri. Quando esaurì la sua forza tirai fuori un urlo liberatorio di esultanza. La mia prima onda oceanica.
A quella ne seguirono altre per un'ora abbondante e alla fine della lezione ricevetti un attestato che conservo gelosamente in cui si certifica che sì, avevo surfato un'onda hawaiana. My first hawaiian wave. E anche un'impietosa foto sul retro del surf shop. Davanti alle tavole appoggiate in fila ci siamo io e Conrad. Lui, alto, abbronzato, sorridente e con un fisico così. Io scapigliato, sfranto, con le spallucce da pollo e biancuzzo da far schifo. Neanche la forza di fare un sorriso, ma dentro una soddisfazione enorme. My first hawaiian wave. Wow, wow!
 
C'è stato un tempo in cui sono stato capace di surfare belle onde ma poi, senza un motivo valido, ho smesso. Troppo lavoro, troppo allenamento, troppa fatica, troppo freddo, troppe scuse buone, la lei di turno che si annoiava sulla spiaggia e mi faceva venire i sensi di colpa anche se diceva:  - No tranquillo, tu vai. Vuoi andare? Vai, io sto qui sulla spiaggia a leggere un libro, tu vai tranquillo - . E io ero sicuro che l'avrei pagata, che sarebbe arrivato il momento in cui mi avrebbe rinfacciato le ore passate sulla spiaggia ad aspettare anche se, a dirla tutta, ma chi gliel'aveva chiesto di aspettare lì ad aspettare col suo schifo di libro? Ed è così che mi sono negato il surf per tanti anni.
Poi è arrivato un martedì in cui avevo fissato un appuntamento dal doc, guarda caso surfista anche lui. E così, mentre mi stava facendo un'ecografia, si è parlato di onde e fantastiche avventure da vivere, poi a un certo punto mi ha detto:
- Ecco, questo non volevo vederlo - .
- Ah - .
- Hai da fare venerdì? - .
Silenzio.
- Be', qualsiasi cosa abbia da fare mi sa che la risposta giusta è no - .
Ecco, poi il venerdì è diventato un lunedì, ma la sostanza non è cambiata. Nella mia vescica c'era un tumore.
 
La malattia ti costringe a pensare e a rimettere le cose al loro posto.
Le priorità innanzitutto. Il pensare più a se stessi. Abbandonare le sovrastrutture. Spogliarsi dei pudori. Essere più egoisti. Lasciare a casa la lei di turno quando vuoi stare da solo e io, in finale, sono un solitario. Si nasce da soli, si muore da soli, questo non lo dimentico mai.
La malattia ti cambia la vita così, senza un preavviso. Magari hai un piccolo interrogativo perché hai visto qualcosa che usciva dai soliti schemi – nello specifico un po' di sangue nelle urine – o magari non avevi visto nulla, solo un controllo di routine. Quello che è stridente è la differenza tra il prima e il dopo. Entri in uno studio medico così, tranquillo, senza grosse paure, pensando che sì, c'è stata questa cosa ma figuriamoci sarà una roba da nulla, anzi, è già tutto a posto forse me la potevo pure evitare questa visita ma in fondo per stare più tranquillo la faccio, anzi, non è che sono io che devo stare tranquillo sono tutti gli altri che così si mettono l'anima in pace e va bene così...
Entri tranquillo ed esci che la tua vita è ribaltata come un calzino. L'appuntamento importante che avevi nel pomeriggio vale meno di zero. Il lavoro fondamentale che dovevi chiudere in ufficio così fondamentale non è, anzi, è lontano un milione di miglia e tutto sommato vedi che anche la tua presenza sul lavoro non è così indispensabile come ti avevano fatto credere fino ad allora.
Nel mio caso, dopo la visita, con il doc siamo scesi al bar e ci siamo seduti al tavolino. Lui caffè, io un succo di frutta ché avevo bisogno di zuccheri per rimettermi un po' su. La gastrite era dietro l'angolo e la caffeina era meglio evitarla.
- Senti - mi ha detto, - io con i pazienti parlo chiaro e con te parlerò ancora più chiaro - .
- Dimmi - .
- Non si muore. Questo lo devi sapere. Anche nel caso più grave di questo tipo di patologia, lo devi sapere. Ti opero, faccio una bella pulizia, poi vediamo che tipo di tumore è e come agire in seguito. Può darsi dovrai fare una chemio ma può darsi pure di no, dovremo aspettare il risultato dell'esame istologico - .
- Va bene - .
- E poi da quello che ho visto c'è solo una neoplasia. Vedremo durante l'operazione, ma per esperienza ti dico che mi sembra superficiale - .
- Vedremo - .
Non sono stato di molte parole, lo ammetto. In testa avevo una tempesta che l'uragano Katrina in confronto era una piacevole brezza mattutina. Un vorticare di parole, figure, pensieri, immagini che si sovrapponevano le une alle altre senza un filo logico. Non è stato un bel momento, però ho notato subito una cosa. Una volta, molti anni prima, feci delle analisi del sangue perché avevo una febbre persistente che non andava via. Una febbretta stupida, la sera saliva a 37,2 o poco più, niente di che, ma non passava. Ricordo perfettamente il momento in cui ritirai i referti delle analisi e sul marciapiede fuori dal laboratorio lessi una serie di “positivo” nella colonna di destra. Avevo preso l'epatite B, non era uno scherzo. Lì sentii di avere qualcosa di marcio dentro, come se il corpo mi fosse nemico, come se mi remasse improvvisamente contro e andando a cozzare contro la mia volontà razionale.
Stavolta no.
Avevo un tumore ma il mio corpo era con me. Ne saremmo usciti insieme, vincenti. Questo lo sapevo. Avremmo remato nella stessa direzione, avremmo affrontato l'operazione e la degenza con determinazione per tornare a essere padroni della nostra vita. Io e il mio corpo.
Per l'operazione ho scelto l'anestesia locale, la cosiddetta spinale, perché così mi sarei ripreso prima nel decorso post operatorio. La sala operatoria era pronta ed erano tutti lì, il doc e gli assistenti, ad aspettarmi. L'anestesista “se credeva sto cazzo” si direbbe dalle parti mie, è arrivata in ritardo, non ha chiesto scusa a nessuno, ha domandato, ha fatto firmare un foglio, poi ha cominciato a sentire le vertebre sulla schiena, ha infilato l'ago, ha iniettato e se n'è andata. L'effetto della spinale, lo dico a scanso di equivoci, è orrendo. Le gambe diventano qualcosa di irreale, toccarle è come mettere la mano su un morto. Una sensazione a dir poco sgradevole. Ho ansimato e mi sono sentito a disagio.
- Vuoi essere sedato? - ha domandato il doc.
- Sì - .
Wow, a saperlo prima... era morfina? Qualche altro tipo di oppiaceo? Non lo so, ma è stato un gran bel trip. Ho assistito alla mia operazione guardandola in un video montato in alto nella camera operatoria. L'intervento alla vescica ora si fa così. Ti infilano un cannello senza tagliare, quindi dall'unico buco presente sul davanti. Questo cannello in cima ha una telecamera, una lampadina, un cucchiaino tagliente e come se non bastasse riempie d'acqua la vescica. Il doc lo muove e guarda in un monitor al plasma come se stesse giocando a un videogame, solo che il campo di battaglia sono io. Ma alla fine, grazie anche alla sedazione, l'operazione è stata una passeggiata.
Quello che è meno divertente è quando passa l'effetto della spinale, parecchie ore dopo. Il catetere, le cicatrici interne e tutto lo sconvolgimento che c'è stato si fanno sentire tutti insieme. Una dose massiccia di Toradol non te la nega nessuno.
Una settimana di ospedale, due a casa per ricominciare con piccole passeggiate di cento passi, poi duecento, un quarto d'ora, un chilometro e sempre più. E maturo l'idea di ricominciare con qualcosa di mio, di andare a cercare i miei desideri profondi e dargli vita. E penso che cominciare con il surf sia il primo piccolo grande passo della mia ricorstruzione.
Perché un giorno ho smesso? So che dovrei fare un doloroso esame di coscienza e che la risposta è stata già scritta qualche riga più sopra – priorità, sovrastrutture, lei di turno – ma ora non posso affrontare un viaggio interno così complesso, ci devo arrivare per gradi. Ora posso iniziare a tornare sulle onde.
Il mio doc mi ha girato un suo contatto e mi sono aggregato alla sua scuola che fa base al Castello. Quel sabato, quello della mareggiata poderosa, lui è andato alle 9.30, io alle 15. Perché il surf è una pratica individuale anche se si fa in gruppo. Si chiacchiera, ci si incita, ci si strilla e ci si sbatte addosso soprattutto se si è principianti.
Sono arrivato al Castello poco dopo le 13 e ho incontrato il doc che usciva. Stanco, sfatto, gli occhi gli brillavano perché aveva preso quattro onde e le condizioni del mare erano notevoli.
Mi sono seduto sulla spiaggia a osservare gli altri in acqua. Se non fosse stato per il leggero odore di putrido, caratteristico del Tevere, che anche a 60 km di distanza si fa sentire, avrei potuto essere davanti a uno di quei fantastici spot oceanici con sole a palla, assenza di vento, sabbia dorata e onde lisce di mare in scaduta alte un metro e anche più. In quelle due orette sulla spiaggia ho visto la marea ritirarsi lentamente, le onde calare e diventare più ordinate, regolari.
- A perfect day to learn - mi disse Conrad a Big Island, Hawaii, circa quindici anni prima. Conrad era un californiano, sosia di Brad Pitt. Alto, biondo, abbronzato, fisicatissimo, con una piuma di uccello tatuata su un braccio. Di giorno faceva l'insegnante di surf, la sera suonava la chitarra in un locale. Progetti sul futuro zero. Penso ancora che l'ultimo dei suoi problemi fosse quello di trovare ragazze disponibili. Ho fatto con lui una lezione per capire come fosse il mare hawaiano, le correnti locali, le maree, il fondale e tutto il resto. L'ho scelto come guida spirituale per farmi entrare nel grande oceano Pacifico.
- Ci sono squali qui? - .
- Sì, ma sono piccoli -  rispose con un eloquente gesto della mano come per dire che non era un problema.
Mi piaceva questo approccio molto filosofico.
Cerimonia di vestizione, riscaldamento e simulazione di take off – la manovra di alzarsi in piedi sulla tavola – dentro l'ufficio. Mi sentivo ridicolo ma è stato uno di quei momenti in cui ho vinto le sovrastrutture e i pudori. Stare sdraiato per terra in una baracca a muovere le braccia come un naufrago. Ma volevo la mia onda hawaiana, fare questa esperienza.
Uscimmo poi [con le tavole e ci portammo sulla line up, dove l'onda frange e comincia a essere surfabile. C'eravamo solo noi. Dopo una breve attesa vidi l'onda e sussurrai: - Here we go - . Girai la tavola con la prua verso riva e l'onda mi passò sotto. Mancata.
Tornai indietro pagaiando scornato, Conrad mi spiegò che avrei dovuto muovere le braccia con più energia, aggredire l'onda. Ne arrivò un'altra: - C'mon - . Cominciai a pagaiare prima ancora di sentirla. - Paddle, paddle, paddle! - mi incitò Conrad, sentii la sua voce allontanarsi, l'accelerazione, vidi la schiuma dell'onda a destra e sinistra, come una manina che mi stava portando. Non ci potevo credere, l'avevo presa. Feci il take off e rimasi in piedi. L'onda era bellissima, hawaiana, piccola ma potente, la più bella di tutte, la più bella di sempre. Mi portò giù per decine e decine di metri. Quando esaurì la sua forza tirai fuori un urlo liberatorio di esultanza. La mia prima onda oceanica.
A quella ne seguirono altre per un'ora abbondante e alla fine della lezione ricevetti un attestato che conservo gelosamente in cui si certifica che sì, avevo surfato un'onda hawaiana. My first hawaiian wave. E anche un'impietosa foto sul retro del surf shop. Davanti alle tavole appoggiate in fila ci siamo io e Conrad. Lui, alto, abbronzato, sorridente e con un fisico così. Io scapigliato, sfranto, con le spallucce da pollo e biancuzzo da far schifo. Neanche la forza di fare un sorriso, ma dentro una soddisfazione enorme. My first hawaiian wave. Wow, wow!
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