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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Autore: MGL Valentini
Titolo: Figli del peccato - I Roccagelata
Genere Romanzo Storico
Lettori 3315 29 55
Figli del peccato - I Roccagelata
Roccagelata, giugno 1304
Il cortile interno della rocca risuonava dei rumori che le lame di osso di balena producevano quando venivano in contatto, seguite come un'eco dalle esclamazioni di sorpresa dei bambini che spiavano dal porticato e dalla loggia. Alcuni soldati incrociavano le loro spade con i più piccoli che stavano imparando il mestiere delle armi, indifferenti al polverone che alzavano e che riluceva sotto i raggi del sole. Le loro grida mettevano in fuga gli animali da cortile, mentre i cani li spiavano di sottecchi, niente affatto intimoriti.
In genere gli allenamenti si svolgevano al di fuori della rocca, in spazi più ampi; ma quel giorno nel borgo si svolgeva il mercato e gli allenamenti non erano permessi per non creare disordini. In quelle occasioni erano addestrati solo i più piccoli, sotto l'occhio supervisore di Ruggero Monteforte. Questi non perdeva una scoccata né un affondo e gridava un rimprovero, magnificava un complimento e non lesinava consigli, con la sua voce stentorea che si udiva ben oltre il cortile interno della rocca.
Ogni tanto, con il suo passo claudicante, si avvicinava ad alcuni duellanti e menava le braccia possenti in aria per mostrare come dovevano attaccare e come, al contrario, difendersi. Sottolineava sempre -instancabile nel ripeterlo- che la sopravvivenza era figlia dell'esperienza e che avrebbe voluto morire con la consapevolezza che gli uomini di Roccagelata sarebbero sopravvissuti a qualsiasi scontro grazie ai suoi insegnamenti.
Suo compito era istruire i ragazzi di nobili natali -che dai feudi limitrofi giungevano in tenera età- fino alla soglia del cavalierato, compresi i due figli del conte, Jano e Roffredo.
I due bambini, di otto e sette anni, erano tanto uguali fisicamente quanto diversi per indole e carattere.
Il primogenito, Jano, era presuntuoso, indolente, più dedito all'ozio che alle armi, l'esatto opposto dello zio del quale portava il nome.
Roffredo, al contrario, avviato alla carriera ecclesiastica, mostrava chiari segni di essere più in gamba del fratello nel maneggiare la lancia e la spada, tanto da far sorgere dubbi in Ruggero. Questi aveva già da qualche tempo fatto presente al conte che i ruoli dei due bambini erano viziati dai rispettivi caratteri, eppure Orso, conte di Roccagelata, non aveva voluto intendere ragioni ed era rimasto arroccato sulle proprie decisioni: al primogenito la contea, al secondo la porpora.
Così, mentre Jano si affannava nel dimostrarsi degno del ruolo impostogli per diritto di nascita, Roffredo lo surclassava con evidente facilità, esibendo la sua innata indole di guerriero che, per volere paterno e per retaggio atavico, gli era negata.
Con un sospiro Ruggero strinse l'unico occhio dal quale vedeva e si concentrò sui bambini che si battevano con due militi poco più grandi di loro, che li incalzavano per saggiare la loro bravura e metterli alla prova. Non si sorprese quando Roffredo, con una girata di polso, riuscì a disarmare il proprio avversario.
- È decisamente in gamba. - commentò Ettore Malatesta arrivando alle spalle di Ruggero.
Il cavaliere annuì al suo comandante senza neppure girarsi a guardarlo e si grattò la cute dietro il collo prima di scuotere la testa.
- Se solo Orso aprisse gli occhi, risparmierebbe molte umiliazioni a Jano. - borbottò.
Ettore annuì, trovandosi d'accordo con lui e nel frattempo non mancò di notare lo scintillio di esultanza negli occhi di Roffredo quando si girò verso il fratello che era incalzato dall'avversario.
Al pari di Ruggero, Ettore temeva che in un futuro non molto lontano i rapporti tra i due fratelli si sarebbero guastati, rendendoli rivali in ruoli che non competevano loro e che non potevano esimersi dall'interpretare.
Mise una mano sulla spalla del cavaliere e mormorò:
- Sarà quel che Dio vuole. -

* * *

Roffredo distolse gli occhi dal libro e osservò il cielo attraverso la trifora, eccitato all'idea che presto avrebbe compiuto sette anni e che, a distanza di una settimana, suo fratello ne avrebbe finiti otto. Per l'occasione l'intera contea in quei giorni avrebbe fatto festa e loro avrebbero ricevuto molti doni, a testimonianza dell'affetto che il popolo nutriva per loro.
Ma c'era anche un altro motivo che lo spingeva ad attendere con ansia il genetliaco: finalmente arrivava il caldo e lui poteva uscire più spesso dalla rocca, per sentire i raggi del sole riscaldargli le gote e gli avambracci.
L'inverno, lì a Roccagelata, era sempre molto rigido e la neve e il vento gelido impedivano una vita regolare, costringendo a rimanere accanto ai camini accesi in ogni stanza del maniero. A differenza di altre rocche, la loro era riscaldata in quasi tutte le stanze, proprio per contrastare la rigidità di un clima avverso.
E, nonostante ciò, il freddo dell'anno precedente si era portato via diverse persone anziane, alcuni neonati e un numero imprecisato di animali da pascolo e da cortile. Lo stesso Roffredo era di salute cagionevole.
Alcuni piccioni sfrecciarono dinanzi alla trifora e il bambino sbatté le palpebre, domandandosi se anche quell'anno suo padre non l'avrebbe degnato di uno sguardo, troppo intento a commemorare la dipartita dell'amata consorte per occuparsi del suo compleanno. Che colpa aveva lui se sua madre era morta dandolo alla luce? Non aveva memoria di un compleanno in cui suo padre gli avesse fatto gli auguri: li elargiva solo a Jano, come se lui neppure esistesse.
Crescendo, quella situazione aveva iniziato a pesargli, sebbene i regali dei sudditi supplissero in parte a quella mancanza.
Con un sospiro tornò a concentrarsi sulla lezione che gli impartiva padre Adalberto e si sforzò di seguire le gesta del Cristo. Presto sarebbe partito alla volta di Roma, presso uno zio cardinale, il quale gli avrebbe mostrato la sua futura vita come principe della Chiesa, introducendolo in quel mondo che ben poco aveva del divino e molto dell'umano.
Da una parte era eccitato all'idea di conoscere una realtà diversa da Roccagelata; dall'altra paventava il distacco dalla famiglia che era tutto il suo mondo. Non solo Jano e suo padre, ma anche ‘ser Ruggero, ‘ser Ettore, Vidicungo, Dorotea e padre Adalberto: li considerava parte della famiglia e il solo pensiero di separarsi da loro lo angustiava un po'.
- ... E questa è la lotta che S. Giorgio ingaggiò contro il drago. - concluse il prelato posando una mano dalle dita grassocce sul ventre prominente.
Roffredo abbozzò un sorriso di circostanza, sperando che il suo mentore non gli ponesse domande alle quali sapeva di non poter rispondere.
Adalberto corrugò le sopracciglia incanutite dall'età e stava per aprire bocca, quando Roffredo si alzò di scatto dalla sedia, prevenendolo con un sorriso solare e un gesto rapido della mano, per poi schizzare via, cercando di mettere più spazio possibile tra loro. Spalancò la porta della stanza e si catapultò fuori, attratto molto più dal sole che dall'oscurità delle quattro mura e il sacerdote provò a rincorrerlo, urlando:
- Fermati! La lezione non è ancora finita e tu... -
Non proseguì oltre, perché il bambino era già sparito dalla visuale, inghiottito dalla gente presente nel salone principale.

* * *

Ci siamo, pensò Vidicungo Sanfelice, lasciando cadere la missiva sulla scrivania.
Portò le mani sul volto e si strofinò gli occhi che ormai non vedevano più bene né da vicino né da lontano.
Era stanco; una vita intera trascorsa al servizio dei conti di Roccagelata gli aveva permesso di condurre un'esistenza agiata e il suo ventre arrotondato era lì a testimoniarlo, al pari delle sue mani candide e prive di calli.
Non gli era mancato nulla: dalla stima alla fiducia che i conti gli avevano riservato, lavorando sempre e solo per la prosperità del feudo, spesso al lume di candela fino a notte inoltrata. Nessuno, nella contea, si sognava di dover fare a meno di lui, come se lui fosse eterno. Ma era stanco.
La mole di lavoro che in quegli anni si era sobbarcato, ora iniziava a pesargli, a essere eccessiva per la sua veneranda età. E già si domandava quanto tempo avrebbe ancora avuto prima di raggiungere i suoi vecchi amici che da molto lo avevano preceduto. Era rimasto l'ultimo della sua generazione, insieme ad Adalberto, e in certi momenti si rendeva conto che avrebbe volentieri lasciato tutto in mano a un siniscalco più giovane.
Con un sospiro tornò a guardare la pergamena e si disse che il Signore aveva in serbo per lui ben altro che il riposo eterno al quale anelava.
L'aspra lotta tra Filippo IV il Bello di Francia e papa Bonifacio VIII, si era conclusa nel settembre del 1303, con l'invio ad Anagni di una delegazione francese, capeggiata da Guglielmo di Nogaret e Sciarra Colonna. Costoro avevano tenuto prigioniero il papa nel palazzo episcopale per alcuni giorni.
Si era sparsa la voce che il Nogaret avesse schiaffeggiato Bonifacio VIII con il suo guanto in maglia; tuttavia il francese non si era spinto a tanto, sebbene Sciarra, per antichi dissapori con i Caetani, non avesse lesinato insulti e minacce al vicario di Cristo, giungendo a chiedere la sua morte. Invece il Nogaret aveva optato per una via più diplomatica, onde evitare la sollevazione del popolo e si era limitato a tenere il Caetani in ostaggio.
La notizia era corsa come un baleno per tutta l'Europa cristiana e alla fine, sebbene mal visto persino dai propri concittadini, Bonifacio VIII era stato rilasciato grazie all'insurrezione di Anagni, che aveva messo in fuga la delegazione francese.
A dispetto della libertà, il pontefice aveva avuto giusto il tempo di rientrare a Roma per morirvi nell'ottobre del 1303, lasciando in eredità una grave responsabilità al proprio successore.
Temendo tumulti tra opposte fazioni, i cardinali avevano eletto in fretta e furia il vescovo di Ostia, un ultra settantenne che si prevedeva avrebbe solo fatto da cuscinetto, quel tanto che bastava per placare gli animi. Il nuovo pontefice, Benedetto XI, più per forma che per giustizia, a novembre dello stesso anno aveva indetto un processo contro i responsabili dei fatti di Anagni, nella speranza di continuare a tenere alto il nome del predecessore e, di conseguenza, tutto il sistema della Chiesa. Nondimeno, il processo si era rivelato una farsa, poiché i Colonna avevano avuto la meglio sul pontefice, facendosi addirittura pagare un indennizzo, come se, da carnefici, fossero diventati vittime.
I Colonna avevano altresì premuto sul papa per sciogliere la scomunica sui cardinali Giacomo e Pietro Colonna, ricevendo il categorico rifiuto di Benedetto XI di riaccogliere i prelati in seno alla Chiesa.
Ma durante il Natale del 1303, pressato dal re francese, il pontefice era stato costretto a ritenere chiuso lo scandalo di Anagni, sciogliendo le scomuniche, chiaro segno della decadenza del potere papale a favore della Francia. Tuttavia le continue lotte -protrattesi durante l'inverno- avevano obbligato il papa ad abbandonare l'Urbe per rifugiarsi a Montefiascone prima, in seguito a Orvieto e infine a Perugia, dove aveva caparbiamente riaperto il processo sui fatti di Anagni.
Vidicungo si alzò dalla scrivania con gesti lenti, non più eretto bensì curvo in avanti sotto il peso degli anni. Le ossa gli dolevano e si avvolse in un mantello caldo. Prese la missiva, l'arrotolò e uscì dallo studio.
Raggiunse il salone pieno di gente e girò lo sguardo per individuare il conte. Una capigliatura bionda gli sfrecciò accanto all'improvviso con una certa foga, facendolo vacillare e solo dopo riconobbe Roffredo che correva a gambe levate per guadagnare l'uscita.
- Ah, gioventù! - mormorò coprendosi con il mantello che il bambino, nella sua corsa, aveva tirato via accidentalmente.
Incrociò lo sguardo di Adalberto che caracollava sulle scale in un infelice e quanto mai infruttuoso inseguimento e sogghignò quando il prelato gli si fermò davanti con il fiatone che alzava e abbassava ritmicamente il ventre sotto la tonaca.
- Un po' di contegno, padre. Ti farai venire un colpo se ti ostini a comportarti da ragazzino. - lo redarguì senza cattiveria.
- Ah... Lui non ha terminato la lezione. -
Vidicungo scosse la testa e, mostrando la pergamena, lo bloccò:
- Lascia stare: ci sono cose ben più importanti. -
Il presbitero inarcò le sopracciglia e fissò la lettera senza vederla realmente. Era più interessato alla faccia pallida e tirata del suo amico che non alla missiva: in quel preciso momento, come un fulmine a ciel sereno, prese coscienza di quanto Vidicungo fosse invecchiato in quegli ultimi tempi. I capelli, quei pochi rimasti, erano interamente incanutiti e le gote, un tempo rubiconde e paffute, ora erano scarne e pallide. Le rughe solcavano il suo viso come un campo arato e lo sguardo aveva perso il fulgore di una volta.
Provò un brivido nel rendersi conto che anche lui, come Vidicungo, non era più l'uomo di una volta e la vecchiaia lo aveva ghermito senza che neppure se ne accorgesse.
- Che c'è? - lo beffeggiò Vidicungo mostrando i pochi denti gialli rimasti. - Hai appena preso coscienza che presto renderemo l'anima? -
Adalberto si fece immediatamente il segno della croce e ribatté:
- Io, a differenza di te, accetto tutto quello che viene da nostro Signore con serenità, perché io... -
- Sì, sì, come no! - esclamò girandogli le spalle. - Ho visto la faccia che hai fatto all'idea del trapasso! -
Il prete represse un moto di stizza e lo seguì accigliandosi, preferendo tacere per non innescare una delle loro solite baruffe e si guardò intorno alla ricerca del conte.
Servi e ancelle andavano e venivano nel salone, portando legna, cibo, candele, abiti da lavare o rammendare, seguiti da cani e gatti che si contendevano un pezzo di carne o un posto dove appisolarsi.
Alcuni cavalieri sedevano al tavolo a forma di ferro di cavallo che occupava quasi l'intero salone e chiacchieravano mandando giù boccali di birra, di idromele e pezzi di formaggio. Il polline entrava dalle trifore insieme ai raggi del sole e volteggiava come piccoli fiocchi di neve per posarsi con eleganza sul pavimento in pietra.
Vidicungo uscì e si ritrovò nel cortile dove, accanto al pozzo, vide Jano e Roffredo in compagnia del menestrello che sicuramente li infervorava con i suoi racconti di cavalieri e draghi.
- Lo vedi? - borbottò Adalberto indispettito, alzando il braccio. - Preferisce le canzoni allo studio delle sacre scritture. -
Il siniscalco non lo degnò di risposta e girò lo sguardo. Sotto il porticato vide Orso in compagnia di Ruggero e si affrettò alla loro parte, seguito a ruota dal prelato che continuava il suo monologo contro i perditempo.
- Mio signore, ci sono novità. - annunciò Vidicungo mostrando la pergamena.
Orso distolse l'attenzione da Ruggero, per concentrarsi sull'anziano servitore.
- Cosa succede, amico mio? - s'informò.
- Il momento che attendevamo è giunto: il papa ha di nuovo scomunicato i colpevoli dei fatti di Anagni. -
Il conte si irrigidì e sgranò appena gli occhi, accorgendosi che anche Adalberto era rimasto folgorato dalla notizia. Per un lungo istante i quattro uomini non proferirono parola, consapevoli della portata di un simile evento e solo le risate cristalline di Jano e Roffredo riempirono il cortile inondato di sole.

* * *

Jano accarezzò il pony sul collo e serrò bene le redini e le gambe prima di incitarlo al passo. Roffredo fece altrettanto e insieme si diressero verso il cortile esterno per poi guadagnare il ponte levatoio e proseguire lungo la via maestra.
La giornata era assolata, con il vento di scirocco che sferzava i volti e faceva svolazzare le criniere dei cavalli e i due fratelli avevano deciso di approfittare della concessione avuta dal padre per recarsi al fiume che scorreva placido e cristallino nel bosco attiguo.
Sapevano che quel luogo era stato il preferito di Ettore, Orso e Jano quando erano giovani e loro erano curiosi di esplorarlo per vedere se celasse qualche mistero. La gente del luogo era solita raccontare che nella boscaglia giravano animali mostruosi, simili al liocorno. Qualcuno si era spinto a giurare di aver visto un essere enorme, deforme, che aveva occhi di fuoco e denti sporgenti come le zanne di un cinghiale.
I soldati di guardia al ponte levatoio li fermarono e li salutarono con un sorriso, chiedendo se avessero il permesso di uscire da soli.
- Sì, ovvio, ce lo ha concesso il signor conte. - rispose prontamente Roffredo, gonfiando il petto per apparire più maturo.
Il milite lo studiò a lungo, poco persuaso, consapevole che ci avrebbe rimesso la testa se avesse contravvenuto all'ordine del conte di non lasciar mai uscire da soli i suoi figli. Scambiò una rapida occhiata con il commilitone, anch'egli perplesso. Tenendo le briglie del pony di Roffredo, si sporse per osservare il volto sereno di Jano, tra i due il più pacato e, pertanto, più veritiero, e si convinse che fosse la verità. Con un pallido sorriso mollò le redini e li lasciò passare, continuando a seguirli con lo sguardo.
Roffredo inspirò a fondo l'aria calda, tenendo il pony al passo e quando si ritrovarono sulla via maestra, in prossimità del duomo, Jano domandò curioso:
- Cosa ha fatto cambiare idea a nostro padre? -
L'interpellato sorrise, ben sapendo che aveva sì avuto il permesso, ma con una debita scorta di armigeri al seguito che lui riteneva ormai superflua, giacché non si considerava più un bambino.
- Il semplice fatto che adesso siamo grandi a sufficienza da poter uscire da soli. - rispose con convinzione.
Il fratello parve accettare quella risposta che ingigantiva il suo ego e socchiuse gli occhi per lasciare che il vento caldo gli accarezzasse le gote.
- E sai come si arriva? -
Roffredo aprì la bocca per richiuderla di scatto, accorgendosi che, in realtà, a parte il bosco che era ben visibile da lontano, non aveva la benché minima idea della strada da prendere.
- Sì, certo. - mentì con candore, per il gusto di non rovinare quell'avventura. - È sufficiente seguire il fiume e si arriva alla radura. - spiegò con un sorriso sciocco.
Jano increspò le sopracciglia, dubbioso, e si girò a guardarlo. Come al solito Roffredo indossava gli stessi abiti da una settimana, nonostante Dorotea ripetesse in continuazione che doveva cambiarsi più spesso per evidenziare il ruolo che ricopriva. Aveva anche il viso sporco di terra e i capelli unti, segno che non si lavava da un bel pezzo. E le sue mani, se non fossero state nascoste dai guanti in cuoio, avrebbero rivelato unghie rotte e sporche, come un qualsiasi bifolco. Con tono alterato gli disse:
- Possibile che non ti rendi conto di quanto puzzi? -
A quell'attacco diretto e improvviso, Roffredo si girò a guardarlo e dopo il primo attimo di sorpresa, che lo aveva lasciato a bocca aperta, ribatté aspro:
- Non sono una donnicciola, io. -
A quella risposta provocatoria, Jano sgranò gli occhi e sibilò:
- Vorresti insinuare che io sono una donnicciola? -
- No, assolutamente. - assicurò serafico. - Solo mi domando: a che pro lavarmi se poi devo sudare e sporcarmi di nuovo? - e alzò le spalle in un gesto più che eloquente. - Tempo perso. -
- Che immane idiozia! - borbottò il fratello.
Roffredo abbozzò un sorriso e ammiccando al polverone che alzavano i carri che si muovevano lungo la strada davanti a loro, notò:
- Pensi che usciremo indenni da tutta la terra e la polvere che in questo momento ci circonda? -
L'altro arricciò il naso, senza capire se fosse più infastidito dai carri che alzavano la polvere o dal fatto di dover dare ragione all'altro e il fratello lo colse di sorpresa, affiancandolo per sussurrare:
- Lavarsi troppo è un peccato contro Dio, non lo sai? Si commettono atti impuri. Oppure... - e si illuminò in volto, continuando, - oppure vorresti darmi a intendere che tu... -
- Basta così! Continui a dire solo idiozie! -
Roffredo sogghignò all'espressione offesa dipinta sul volto dell'altro e subito dopo gli indicò il bosco.
- Al prossimo bivio svoltiamo a sinistra. -
Jano gettò lo sguardo oltre i carri che li precedevano e che portavano mercanzia di ogni genere e annuì con sollievo: non avrebbero più inalato terra e iniziò a fantasticare su come avrebbe composto una canzone a ricordo di quella loro prima avventura.
Fu solo quando si inoltrarono nel fitto del sottobosco, seguendo il corso d'acqua che si snodava tra piante fruscianti e sassi levigati, che Jano aggrottò le sopracciglia e si guardò intorno con aria intimorita.
- Tu sei... sei certo che nostro padre abbia acconsentito a farci venire qui senza scorta? - tornò a domandare al fratello che lo seguiva in silenzio.
Roffredo annuì, impossibilitato a sciogliere il nodo di paura che all'improvviso gli aveva attanagliato la gola, mentre portava la mano alla spada di osso di balena legata in vita e che gli dava la giusta sicurezza. In realtà era la consapevolezza di aver infranto un ordine paterno che gli incuteva timore e non gli animali del bosco che li guardavano incuriositi nel loro incedere titubante.
Frotte di insetti li avvolgevano come se fossero cibo fresco e quando un'upupa iniziò a cantare, i due fratelli si irrigidirono, guardandosi attorno con tutti i sensi all'erta. I pony avvertivano l'ansia e il nervosismo dei cavalieri e, di conseguenza, erano piuttosto agitati.
A un certo punto Jano tirò le redini e si fermò. Tutto intorno era un continuo rumoreggiare, dal gorgoglio dell'acqua che scorreva placida nel letto del fiume, al fruscio delle foglie che lo scirocco smuoveva. I rumori del villaggio, a cui loro erano avvezzi, non arrivavano alle loro orecchie e quella strana sensazione di solitudine e inadeguatezza li rendeva inquieti.
- Perché ti sei fermato? - volle sapere Roffredo guardandosi intorno, il tono di voce sommesso, come se avesse avuto timore di farsi udire.
- Perché il mio cavallo è nervoso e non voglio che mi disarcioni. -
- Bene. Allora possiamo scendere a sgranchirci le gambe. - propose.
- Scherzi?! - esclamò Jano inorridito al solo pensiero.
Il fratello alzò le spalle facendo una smorfia e in quell'attimo lo udirono: un rumore diverso dagli altri, un grugnito che pareva una sommessa quanto letale minaccia, seguito da un respiro pesante come l'alito di un drago. Si immobilizzarono sgranando gli occhi e, nonostante la frescura del sottobosco, iniziarono a sudare come se fossero stati sotto il sole.
- Cosa... - sussurrò Jano pallido come un lenzuolo.
- Cos'era? - gli fece eco Roffredo, accorgendosi che aveva iniziato a tremare.
Rimasero in silenzio, le orecchie tese nel percepire ogni minimo rumore e quando udirono rompere un arbusto a una distanza ravvicinata, girarono le cavalcature e le spronarono verso l'unica via di salvezza che conoscevano. Si appiattirono sul collo dei pony, nella speranza di non urtare qualche ramo basso e solo quando Roffredo uscì dal bosco, si accorse che il fratello non era più dietro di lui.

* * *

- Jano!!! -
Attese una risposta che non venne e chiamò di nuovo, sgolandosi inutilmente. Terrorizzato, consapevole di avere sul groppone l'intera colpa, osservò il sole ancora alto nel cielo, cercando di calcolare quanta luce avesse a disposizione prima del sopraggiungere del crepuscolo.
Con un gemito rientrò nel bosco. Questa volta suo padre lo avrebbe ucciso. Se già non lo amava perché lo riteneva causa della morte della moglie, ora lo avrebbe ucciso con le sue mani se a Jano fosse capitato qualcosa.
Continuando a chiamare il fratello, ritornò sui propri passi, il terrore che lo faceva tremare da capo a piedi, facendogli sentire freddo quando freddo non faceva. Lasciò che fosse il pony a ripercorrere la strada, tenendo la spada ben stretta nella mano. Quando pensò di aver perso il fratello, vide il suo cavallo che vagava da solo, sbuffando e piegando in continuazione una delle zampe anteriori.
Con il cuore in gola si guardò intorno, chiamò Jano senza più voce, quindi si fece coraggio e scese da cavallo, tenendolo per le briglie. Mosse un passo verso il pony del fratello, quando un rumore improvviso lo fece girare di scatto e rimase impietrito a fissare l'orso che annusava il corpo di Jano riverso a terra. Deglutì, non sapendo cosa fare, il cuore che gli martellava nelle tempie e rimbombava nelle orecchie, l'orso che pareva solo incuriosito.
Pater noster, qui es in caelis, sanctificetur nomen Tuum, adveniat regnum Tuum, fiat voluntas Tua... Senza che se ne accorgesse la preghiera gli si formò nella mente e rimase sospesa, come appesa a un filo, quando il plantigrado lo vide e lo fissò a lungo. Per un istante, che a Roffredo parve una vita intera, rimasero con lo sguardo incatenato, fin quando il ragazzo chiuse gli occhi tremando. Solo a quel punto, ritenendolo innocuo, l'orso si girò e sparì tra la vegetazione.
Roffredo riaprì gli occhi, non si mosse per un bel po', travolto dalla propria paura e fu il suo pony a scuoterlo quando tirò le redini che lui teneva talmente strette che i guanti avevano lasciato i segni sulle mani. A quel punto sbatté le palpebre, deglutì e si guardò intorno, come per accertarsi che fosse ancora vivo.
Le fronde degli alberi ondeggiavano lievi al vento e i sommessi rumori del sottobosco avevano ripreso vita, come a volergli palesare lo scongiurato pericolo. Mosse un passo avanti, titubante. Adagio, con tutti i sensi all'erta, il cuore che gli martellava nelle orecchie, si avvicinò a Jano e gli si inginocchiò accanto, accorgendosi che era solo svenuto. Tirò un sospiro di sollievo, felice di non essere stato la causa del decesso del fratello, quindi lo scosse per fargli riprendere conoscenza.
Nel frattempo continuava a guardarsi intorno, timoroso di un ripensamento da parte dell'orso e si tranquillizzò solo quando si accorse che i pony non erano più nervosi.
Jano emise un gemito e Roffredo lo studiò per accertarsi che stesse bene. Il fratello si toccò la fronte e si lasciò sfuggire un grido al dolore che provò, mentre l'altro lo aiutava a rimettersi in piedi.
- Tutto bene? - s'informò.
Jano annuì, quindi borbottò qualcosa prima di dire:
- Nostro padre si starà preoccupando. -
- Cosa ti è accaduto? Mi sono girato e tu non eri più dietro di me. -
Jano si strofinò gli occhi e inarcò le sopracciglia, non ricordando bene cosa fosse capitato e suppose:
- Io... ho battuto contro qualcosa. Devo essere caduto da cavallo. -
- Sì, probabilmente contro un ramo basso. Come ti senti? -
- Mi scoppia la testa. - ammise chiudendo gli occhi.
Roffredo si morse le labbra e lo esortò a montare in sella, prima che il sole calasse all'orizzonte. Era certo che al castello tutti li stessero cercando ed era altrettanto certo che non l'avrebbe passata liscia.
Jano si fece aiutare a rimontare in sella e incitò il pony a uscire dal bosco, talmente frastornato e dolorante che la paura provata prima era svanita, come un lontano ricordo.
Roffredo lo seguì, con i sensi all'erta e solo quando raggiunsero la via maestra, si concesse un momentaneo rilassamento in attesa della punizione.
MGL Valentini
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