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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Self Publishing. In passato è stato il sogno nascosto di ogni autore che, allo stesso tempo, lo considerava un ripiego. Se da un lato poteva essere finalmente la soluzione ai propri sogni artistici, dall'altro aveva il retrogusto di un accomodamento fatto in casa, un piacere derivante da una sorta di onanismo disperato, atto a certificare la proprie capacità senza la necessità di un partner, identificato nella figura di un Editore.
Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Francesca Prandina
Titolo: Come vento ribelle
Genere Romanzo Storico
Lettori 3416 28 54
Come vento ribelle
Me ne stavo immobile sotto la pioggia, incapace di reagire. Avevo appena ucciso un uomo.
O almeno così temevo.
Lo fissavo sgomenta, ma la giubba blu che mi ero sfilata per coprirlo me lo celava agli occhi e non potevo vedere se respirava ancora, né avevo voluto soffermarmi ad ascoltare il battito del suo cuore.
Le lacrime si confondevano con la pioggia che bagnava il mio viso. Come avevo potuto cacciarmi in un simile guaio?
Se fossi stata una figlia obbediente non mi sarei trovata in quella situazione, sola nel far della sera e con cinque Confederati alle calcagna.
La pioggia battente aveva cominciato a inzuppare la mia camicia e sentivo la stoffa che s'incollava sulla pelle rivelando le forme ancora acerbe. Mio padre si sarebbe infuriato se mi avesse visto così conciata, esposta senza pudore agli occhi di chiunque.
Non so cosa avrei dato per vederlo spuntare dagli alberi e costringermi a seguirlo al forte. Avrei accettato qualunque punizione pur di far sì che quell'improbabile situazione si avverasse. Mi sgridasse pure, mi colpisse con il suo scudiscio per inculcarmi un po' di buona educazione e responsabilità, ma mi salvasse da quel pasticcio...
Un altro Confederato si stava avvicinando ed io me ne stavo lì a rimuginare come una sciocca.
Mi scrollai di dosso quella speranza assurda, con fastidio.
Il revolver che avevo sfilato dalla fondina del soldato steso a terra era pesante e freddo nella mia mano, ma mi rincuorava. Era carico.
Iniziai a correre. Il fango rendeva pesanti i miei passi e la gamba ferita non mi sosteneva come avrei voluto, anche se non sentivo dolore in quel momento. La paura era la molla che mi spingeva a correre senza preoccuparmi d'altro che non fosse cercare un rifugio, un nascondiglio, un aiuto.
Lo sentii gridare, mi ordinava di fermarmi.
Con la furia cieca della bestia ferita, strinsi il revolver tra le mani e mi girai di scatto puntandolo nella direzione della voce. Gridai mentre tiravo il grilletto quattro volte e serrai le palpebre. Il rinculo era più forte di quanto mi aspettassi e le mie braccia ricaddero stremate dopo la prova.
Il soldato in grigio era immobile. Non vacillava, non cadeva, non si piegava su se stesso... l'avevo mancato.
Perché non avevo avuto il permesso di imparare a sparare? Perché? Perché ero una ragazza... semplice, ecco perché.
Adesso mi avrebbe fatto a pezzi se fosse riuscito a mettermi le mani addosso... meno di cento passi mi separavano da lui, dovevo mettermi a correre più in fretta che potevo.
Piena di rabbia gettai via quell'arma che ormai era solo un peso inutile e ricominciai ad arrancare nel fango. La gamba ferita m'impediva di raggiungere una velocità decente, zoppicavo e stringevo i denti cercando di non rimanere bloccata nel fango e andare avanti.
Rovinai al suolo sotto il suo peso, la faccia nel fango. Torse dolorosamente il mio braccio afferrandomi un polso con una tale decisione da strapparmi un gemito, mentre m'inchiodava a terra. Sentii che mi stringeva il polso con qualcosa che mi segava la pelle e capii che stava tentando di legarmi. Non volevo permetterglielo, non mi sarei lasciata immobilizzare così e nascosi l'altra mano, che ancora arrancava in cerca di un appiglio per la fuga, sotto la pancia.
Cominciò a strattonarmi, era deciso ad afferrare anche l'altro polso, ma io stringevo con tutte le mie forze una radice e non volevo dargliela vinta.
Con una mossa decisa tolse il ginocchio che teneva puntellato contro la mia schiena e mi girò a pancia in su.
La sua espressione mutò in un istante, dalla collera che gli faceva apparire una ruga verticale sulla fronte i suoi occhi si allargarono in un'espressione di puro stupore. Io ansimavo per lo sforzo e l'ansia e lo fissavo terrorizzata. Era giovane, non poteva essere più vecchio di Jonathan e aveva due occhi di un incredibile color celeste.
Chissà perché in un momento come quello mi mettevo a notare un particolare così insignificante. Forse era la speranza che quegli occhi sgranati significassero che ero salva.
Tutti questi pensieri mi attraversarono la mente sconvolta in una frazione di secondo, poi fui riportata alla realtà dalla sua presa che mi costrinse a tirarmi in piedi. Sembrava disorientato e allungò una mano verso di me per scostarmi una ciocca di capelli dal viso sporco di fango. Io girai istintivamente la faccia temendo che mi colpisse, ma non lo fece.
Poi mi prese l'altro polso e mi legò in fretta, non opposi resistenza. Ero troppo spaventata per muovermi: il suo sguardo pieno di collera mi aveva atterrita e il suo successivo smarrimento mi aveva per un attimo illuso che mi avrebbe lasciata andare, ma non sembrava quella la sua vera intenzione.
- Chi diavolo sei? È possibile che tu sia una ragazza? - lo sentii borbottare tra sé mentre mi legava.
Già, come poteva crederlo? Era quello che si chiedevano tutti.
Da anni me lo chiedevo anch'io...

Estate 1858 - Utah
Marie stava preparando il pranzo domenicale, che avrebbe dovuto rallegrare la sua famiglia dopo il sermone di padre Ermann, ma era inquieta e lo stufato rischiava di trasformarsi in un pasticcio di carne bruciata e sugo rappreso. La lettera che gentilmente le aveva fatto avere fuori dalla chiesa il signor Mitchard, responsabile del servizio postale, l'aveva sconvolta.
Veniva da Boston: la governante di sua madre le comunicava con poche e dolorose parole che l'anziana signora era molto malata e probabilmente si sarebbe spenta presto.
Marie era rimasta senza parole. La madre stava morendo dall'altro lato del continente senza nessuno accanto e lei se ne stava lì a mescolare dei pezzi di carne come se nulla fosse. Avrebbe voluto mettersi a piangere, urlare, qualunque cosa pur di sfogare la sua angoscia e senso d'impotenza, ma il contegno che la distingueva era radicato troppo in profondità per permetterle di lasciarsi andare a qualunque manifestazione di collera. Eppure avrebbe voluto per un attimo non essere una signora, per poter lanciare lontano il mestolo che stringeva tra le nocche bianche e gridare contro la sventura che la teneva prigioniera in quella città sperduta nel territorio dello Utah.
Se fosse rimasta a Boston ora non si sarebbe sentita così! Ma aveva sposato un ufficiale dell'esercito... Era tutta colpa sua: si era illusa di poter condurre la sua vita in quell'elegante città in cui era sbarcata da bambina, dopo un lungo viaggio che dalla Francia l'aveva portata in America con la sua famiglia, e si era innamorata proprio di un uomo in divisa.
Come aveva potuto essere tanto sciocca da credere che suo marito sarebbe rimasto tutta la vita a Boston a ricoprire ruoli di rappresentanza? Era il figlio di un anziano ufficiale e frequentava le famiglie più importanti, non immaginava che desiderasse intraprendere una carriera attiva nell'esercito. E invece era stata tradita nelle sue aspettative subito dopo il matrimonio, quando si era trovata costretta a seguirlo in un forte nel Texas.
Sua madre l'aveva guardata partire con rimpianto e anche con un'aria di rimprovero che non aveva più dimenticato... Aveva sognato una vita circondata da gente di alto livello sociale nei salotti di Boston e invece si era trovata a dare alla luce il suo primo figlio, Jonathan, in un luogo caldo e inospitale. Solo un anno più tardi era nato Robert e nel 1845 era arrivata Sabrina.
In concomitanza con il lieto evento, i rimproveri materni per la scelta sconveniente di far crescere dei bambini in un forte si erano inaspriti a tal punto che Marie aveva quasi tirato un sospiro di sollievo allo scoppio della Guerra Messicana nel ‘46. Era tornata a Boston con i suoi tre figli mentre il marito era impegnato a combattere.
Sospirando cercò di scacciare dalla testa quei ricordi, che venivano a galla inaspettati come i pezzi di carote nello stufato che rimestava stancamente. Quello era stato il più bel periodo della sua vita ed era troppo doloroso pensarci, ma sua madre stava morendo, in quella casa che lei ricordava con tanto affetto, dove aveva vissuto l'infanzia spensierata dei suoi bambini circondata dagli amici di sempre.
Doveva tornare da lei...
Non riusciva a ricordare perché l'avesse lasciata. Lei odiava lo Utah, il caldo soffocante, la puzza di sudore degli uomini che incontrava tutti i giorni, la polvere, gli insetti... Non era fatta per quella vita e suo marito lo sapeva! Avrebbe dovuto proteggerla e pensare al bene dei suoi figli, non trascinarli fin lì! E invece, dopo qualche anno di tranquillità a Boston, aveva accettato un incarico in un forte sperduto. Sua madre l'aveva supplicata di rimanere: come poteva pensare che due ragazzini e una bambina di sette anni potessero affrontare un simile viaggio? Nonostante tutto si era ritrovata a fare i bagagli. Lei apparteneva al marito, non aveva altra scelta.
Serrò con forza le palpebre per impedirsi di piangere e si massaggiò la fronte con la mano, mentre serrava le labbra per non fare uscire il tanto temuto urlo di frustrazione. Doveva smetterla di pensare.
Non vedeva il marito e i suoi figli maschi da mesi e non poteva rovinare la loro breve licenza con una notizia del genere. Anche se in fondo provava quasi un sottile senso di vendetta al pensiero di comunicare al marito la sua partenza imminente... Non l'aveva mai perdonato per averla trascinata in quel posto e il fatto di essersi stabilita a Carson City con i figli, per non farli crescere tra i soldati, non le aveva procurato la gioia sperata. Dopo un viaggio terribile erano giunti in quella piccola cittadina, che all'epoca era solo una stazione commerciale chiamata Eagle Station, e lei aveva puntato i piedi rifiutandosi di proseguire fino al forte. Il marito le aveva trovato una piccola casa e lei si era stabilita lì con Sabrina e i ragazzi, cercando di riprodurre per loro uno stile di vita meno decadente, anche se era solo una squallida cittadina di minatori che non offriva grandi attrattive. Si era così alienata la possibilità di vivere appieno la sua vita matrimoniale e dopo appena due anni aveva dovuto rinunciare anche ai suoi figli maschi che avevano preferito trasferirsi al forte con il padre e intraprendere una carriera militare.
- Marie, hai visto Sabrina? -
La voce del marito la riportò alla realtà. Sentendolo avvicinarsi alle sue spalle finse di essere impegnata a mescolare quel pranzo ormai da buttare: non voleva che le leggesse in faccia tutte le sue frustrazioni. Doveva imparare a dominare quelle riflessioni, ma sua madre...
- Si era trattenuta un attimo con Thomas McEnzie fuori dalla chiesa... Non è ancora tornata? - pronunciò, voltandosi con l'espressione più pacata che le riuscì.
- No, neppure Robert e Jonathan l'hanno vista. -
- Quella ragazzina mi farà invecchiare prima del tempo... è così... indisciplinata! Cosa devo fare con lei? - Sospirò frustrata, passandosi una mano sulla fronte, ci mancava sua figlia a rendere quella giornata ancora più faticosa.
- Eppure dovrebbe essersi anche stancata di ripetere tutto il giorno letture e salmi! - aggiunse più per se stessa, pensando che avrebbe dovuto trovare uno strumento di punizione più convincente della sua vecchia Bibbia: sembrava che costringerla a leggere e ripetere per ore quei versi non desse il risultato sperato.
Il marito le carezzò i riccioli biondi con tenerezza, stupendosi come al solito di quanto fosse perfetta la pettinatura della moglie e di quanto la trovasse attraente quando s'imbronciava per il disappunto, contraendo appena le labbra rosate. Non era cambiata da quando l'aveva sposata, neppure quel posto selvaggio aveva scalfito la sua signorilità né il suo dolce accento strascicato da francese. L'amava come il primo giorno, ma s'intristiva ogni qualvolta si rendeva conto che lei era scontenta del loro matrimonio.
Si vedevano sempre più raramente e non era solo a causa delle sue scarse licenze: era come se lei tentasse di estrometterlo dalla sua vita poco a poco. Sapeva che non gli aveva mai perdonato il fatto di aver portato i ragazzi al forte con sé, ma aveva sperato di convincerla a raggiungerli per vivere tutti insieme, senza successo. La famiglia rimaneva di fatto divisa: la moglie se ne stava in città con Sabrina e il capitano quasi non conosceva sua figlia, mentre i ragazzi disprezzavano la madre per quella cocciutaggine.
Ma non aveva voglia di discutere quel giorno: voleva che quella breve vacanza fosse perfetta, visto che era così raro trovare tutta la famiglia riunita sotto lo stesso tetto per più di qualche ora.
- Vuoi che vada a cercarla? - le chiese.
- Sì... - rispose stancamente, sfinita da quel suo breve sfogo di collera. - Per favore, dille che venga a darmi una mano in cucina invece di bighellonare. -
Il marito le diede un leggero bacio sulla guancia prima di andarsene.
- Ai suoi ordini, signora Becker. -
Marie, sospirando, rimandò le sue riflessioni a più tardi e decise di impegnarsi a salvare quanto restava di mangiabile in quel triste stufato.
- Dai salta giù! Ti prendo io! - gridò Tom alla sua amica che spaventata stava aggrappata a un ramo e non sapeva più come scendere.
- Cavolo! Salire è molto più semplice... mi butto allora! Sicuro che mi prendi? - rispose con voce tremante.
Si chiese cosa le fosse saltato in testa di arrampicarsi su quell'albero. Era bastato che Tom la stuzzicasse ed ecco che era riuscita a ficcarsi in quel pasticcio! Non pensava di essere salita così in alto...
Respirando adagio, per tentare di calmare i battiti impazziti del suo cuore, guardò un'ultima volta in basso prima di mollare la presa e lasciarsi cadere verso le braccia protese del ragazzo. Si schiantarono al suolo, ruzzolando, e un profondo squarcio si aprì sul vestito della ragazzina.
- Tutto bene? - le chiese Tom mentre ancora la teneva tra le braccia.
- Lividi a parte, sì! Mamma che botta... - rispose, divincolandosi imbarazzata dalle sue braccia.
- Oh no, guarda il mio vestito! -
Il ragazzo fissò con aria grave lo strappo.
- Dici che tua madre se ne accorgerà? -
- Scherzi?! È il vestito buono... Che stupida sono stata ad arrampicarmi proprio con questo addosso! M'immagino già come si concluderà la giornata: una bella predica a tavola sulle buone maniere e poi un noiosissimo pomeriggio a leggere la Bibbia - pronunciò sconfortata.
- Dai, potrebbe andarti peggio: mio padre mi sistemerebbe a dovere con lo scudiscio! - Ridacchiò.
- Sai che forse lo preferirei? Almeno sarebbe una punizione breve... -
- Dolorosa! - puntualizzò lui.
- Dolorosa ma breve. La Bibbia, invece, è una lenta agonia! Soprattutto quando mia madre m'interroga per controllare che l'abbia letta e imparata sul serio. -
- Mmm, no... non mi hai convinto. E poi non credere che le scudisciate te le dimentichi subito: te ne ricordi per un paio di giorni, soprattutto quando ti siedi! Sei fortunata che con voi femmine non si usi così. -
Sabrina rinunciò: era inutile discutere con un maschio, volevano sempre avere ragione su tutto. Erano loro che sapevano, che potevano, che ricevevano le punizioni più dure, che avevano le più grandi responsabilità... Si sentivano così superiori!
Anche a scuola, quando il maestro decideva di frustarli con la sua verga, si comportavano da eroi e si vantavano delle loro imprese, mentre a lei che era una femmina toccava stare in piedi a fissare un angolo o rimanere in classe dopo la fine delle lezioni senza gloria alcuna. Anzi, doveva poi giustificare alla madre il ritardo e sorbirsi una bella ramanzina e qualche pagina sacra da mandare a memoria per imparare a comportarsi meglio.
- Chissà cosa dirà mio padre - si chiese lisciando la gonna con una mano. Poteva prevedere la reazione della madre, e forse anticiparne anche le parole con buona approssimazione, ma non osava immaginare cosa avrebbe detto suo padre.
- Il capitano è tornato? -
Sabrina si limitò ad annuire senza guardarlo.
- E che tipo è? Mi sembra sempre così serio... -
- Sinceramente non saprei: non lo vedo mai - rispose con un'alzatina di spalle. In quel momento era più preoccupata dei suoi fratelli. Si sarebbero divertiti alle sue spalle e il pensiero la riempiva di astio. Quei due si comportavano come perfetti damerini davanti alla madre, ma era tutta una farsa.
Erano così diversi tra loro da sembrare mal assortiti, eppure erano molto affiatati e, peggio di tutto, in combutta contro di lei. Entrambi spadroneggiavano in casa sua, la fissavano con insolenza e la facevano sentire costantemente a disagio. In particolar modo Jonathan. Va be' che aveva diciassette anni e si credeva un uomo fatto, ma questo non lo autorizzava a essere tanto maleducato!
Se solo il padre si fosse accorto del loro atteggiamento odioso forse li avrebbe sgridati. E allora sarebbe stato divertente vedere la madre prendere in mano la situazione e infliggere anche a loro qualche oretta di Bibbia. Ma erano solo fantasie... Restava da sperare che se ne andassero in fretta e le lasciassero l'opportunità di riprendere il controllo sulla casa.
- Vorrei tanto che nessuno si accorgesse dello strappo - sospirò.
- Anzi, vorrei tornare a casa e scoprire che i miei fratelli se ne sono andati, magari con mio padre... Meglio ancora, vorrei che non ci fosse neanche mia madre: sono stufa delle sue prediche! Potrei vivere in un mondo tutto mio, da sola e libera di fare quello che mi va... -
- Tutta sola? -
- Magari potresti venirci anche tu ogni tanto: così non rischierei di annoiarmi o di rimanere su un albero troppo a lungo! - aggiunse ridendo.
Tom era forse il suo unico amico, era più grande e come i suoi coetanei non amava mischiarsi con le femmine, però aveva un debole per lei e quindi l'assecondava nelle sue stranezze, coinvolgendola in giochi poco adatti a una signorina.
Lei si faceva trascinare volentieri anche perché con le altre ragazzine non andava particolarmente d'accordo. Ogni tanto la madre le permetteva di invitarne qualcuna a casa per passare il pomeriggio e lei finiva per pentirsene: si davano tante di quelle arie! Una volta si era talmente innervosita sentendosi correggere nei suoi modi di fare da una sua coetanea, che si vantava di sapere tutto sul modo in cui le vere signore prendono il tè, che aveva finito per strapparle di mano la bambola e gettarla dalla finestra. Questa era fuggita in lacrime e gridolini e non aveva mancato di dirlo alla propria madre che si era venuta a lamentare. Marie l'aveva rimproverata duramente, ma forse quello che aveva ferito di più la ragazzina era stato notare quanto la disprezzasse in quel momento quella madre di cui non riusciva a essere che un pallido modello...
- Verrò a trovarti nel tuo piccolo mondo tutte le volte che vorrai! E, se ti trovassi su un albero, porterò una scala. -
- No, m'insegnerai a scendere! Tanto nel mio mondo non ci sarà nessuno pronto a lamentarsi per un vestito strappato - rispose lei con aria pensosa, mentre ancora seduta a terra si lisciava distrattamente la gonna.
Tom la guardò in adorazione, vederla così in pena per il suo vestito lo fece sentire in dovere di proteggerla. Le passò una mano sulle spalle e l'abbracciò, insicuro. La ragazzina s'irrigidì.
- Non mi merito almeno un bacio per averti tirata giù da là in cima? Potresti fingere che io sia il tuo principe salvatore... -
Sabrina ridacchiò, piena d'imbarazzo.
- Oppure un brutto rospo che spera nella trasformazione! -
- Come preferisci. -
Lei chiuse gli occhi, con il cuore che batteva all'impazzata, e posò le labbra contro la sua guancia. Tom sorrise. Non soddisfatto le carezzò il viso e con fare un po' goffo posò le sue labbra su quelle della ragazzina che avvampò per la vergogna mista all'emozione di provare una cosa così adulta.
- Sabrina Becker, cosa stai facendo! - li interruppe bruscamente il padre.
Era in piedi, serio, e li fissava. Sabrina sgranò gli occhi e non rispose: suo padre era livido. La prese per un braccio e l'obbligò a rialzarsi mentre Tom, stordito, si affrettava a tirarsi su mettendosi a posto la camicia sgualcita dalla precedente caduta.
- Capitano... perdonatemi, stavamo solo parlando e... - balbettò.
- Non mi sembra che tu le stessi solo parlando, McEnzie. Fila a casa prima che mi venga la tentazione di dirlo a tuo padre - pronunciò con voce breve e perentoria.
Intimorito, ebbe appena la forza di annuire e lanciare un'occhiata fugace alla sua amica prima di allontanarsi a passo svelto.
Sabrina seguì il genitore a testa bassa; non osava proferire parola, in bilico tra la delusione per aver dovuto interrompere un momento così emozionante e la preoccupazione di come avrebbe reagito sua madre. E all'improvviso temeva anche il padre. Non l'aveva mai visto così in collera e la sua totale mancanza d'isterismo, il modo in cui aveva freddato l'amico con due parole e uno sguardo, la fecero sentire vulnerabile. Il fatto di rintanarsi nella sua stanza con la Bibbia le sarebbe parso una benedizione dopo quello che le avrebbero detto i genitori. E probabilmente i suoi fratelli avrebbero assistito alla scena: che umiliazione!
Sentendo lo scricchiolio dell'uscio che si apriva, Marie si affrettò ad assumere un'espressione sufficientemente contrariata per accogliere la figlia ritardataria. Ma non era pronta a ciò che vide: la ragazzina teneva lo sguardo basso, aveva fili d'erba tra le trecce corvine e il vestito strappato. Ciò che la colpì davvero, però, fu l'espressione tesa del marito che trascinava la figlia per un braccio.
- Sabrina, che hai combinato al vestito buono? Vai a cambiarti e sbrigati a preparare la tavola che poi facciamo i conti - le ordinò.
Il marito le lanciò un'occhiata torva: da quando in qua le faccende domestiche avevano la priorità rispetto all'educazione? Ma la madre fece un cenno eloquente alla figlia che si liberò dalla stretta paterna e sgattaiolò su per le scale. Voleva prima parlare con il marito in privato e non farsi cogliere impreparata.
- Lo sai cosa stava facendo nostra figlia? - esplose John, accettando di stare al suo gioco.
- Immagino che si stesse comportando da maschiaccio in compagnia di quel suo amico, visto come ha ridotto il vestito - lo affrontò con piglio deciso: l'aveva già accusata in passato di non saper tenere a bada due maschi irrequieti, non gli avrebbe permesso di insinuare di non saper gestire la figlia.
- Non me ne importa nulla del vestito: Sabrina era seduta nel prato dietro alla chiesa tra le braccia del giovane McEnzie e si stavano baciando! Sulle labbra! -
Marie rischiò quasi di cadere per la sorpresa e si aggrappò a un mobile del soggiorno per sostenersi. Senza parole si sedette su una sedia e rimase per un lungo attimo a fissare il vuoto. Quanto era accaduto andava ben aldilà della sua immaginazione. Pensare alla sua bambina che baciava un ragazzo era inconcepibile. Seduta sul prato poi! Non sembrava affatto un bacio innocente... Chissà cosa sarebbe accaduto se non fosse intervenuto suo padre! Chissà chi avrebbe potuto vederli!
- Ma come si è permessa... - singhiozzò la moglie.
Stava per mettersi a piangere tanto era delusa. Sabrina non sarebbe mai stata considerata una signora se si comportava così senza giudizio, sarebbe stata giudicata come una donna di malaffare, come ce n'erano già troppe in quel posto.
C'era qualcosa di sbagliato in tutto ciò: la figlia che gettava al vento tanti buoni insegnamenti e sua madre che stava morendo.
Era come se il mondo le stesse crollando addosso.
Quello fu l'ultimo pasto che consumarono tutti insieme e fu drammatico. Jonathan e Robert avevano capito al primo sguardo che il padre era in collera: i suoi occhi erano freddi e le sue labbra leggermente tese. Era un'espressione che avevano imparato a conoscere e che non presagiva nulla di buono. La madre fissava il piatto in silenzio e la mano le tremava ogni volta che la muoveva per sollevare la forchetta: era come se le costasse un grande sforzo quella semplice azione. La sorella teneva lo sguardo basso e, più che mangiare, giocherellava con il cibo nervosamente.
I ragazzi avevano sentito i genitori parlottare in soggiorno e Jonathan aveva sorpreso la sorella che tentava di sgusciare furtiva fuori casa.
- Ehi, dove vai? - l'aveva apostrofata.
- Da... da nessuna parte... a... preparare la tavola! Me l'ha ordinato la mamma, chiedilo a lei se non ci credi! - aveva balbettato colta di sorpresa e poi si era precipitata verso la credenza per prendere la tovaglia pulita.
Aveva preferito starsene zitto, ma era chiaro che quella ragazzina doveva averla combinata grossa: il suo eccessivo impegno per mettere i bicchieri perfettamente allineati con le posate, mentre suo padre la teneva d'occhio, tradivano tutto il suo nervosismo.
Il silenzio gravava sulla tavola e tutti stavano intimamente sperando che quello strazio si concludesse presto. Perfino Sabrina cominciava a desiderare che i suoi la rimproverassero in fretta per poter così ricominciare a respirare di nuovo: quell'attesa era tremenda.
La madre interruppe il silenzio.
- Domani partirò per Boston: la nonna è malata e io devo esserle vicina in questo momento. Mi dispiace che la vostra licenza si concluda così. -
Tutti smisero di mangiare per guardarla stupiti. Più di tutti Sabrina che si era aspettata di sentirsi rivolgere il tanto atteso rimprovero.
- Ho ricevuto una lettera questa mattina, io devo andare - continuò, sottolineando la necessità della sua presenza al capezzale materno per fugare nel marito ogni dubbio e non lasciargli pensare che in realtà era felice di tornarsene per un po' nel mondo civile.
Sabrina era sollevata: c'erano problemi più gravi della sua bravata e con un po' di fortuna se ne sarebbero dimenticati prima della partenza. E poi non le dispiaceva affatto la prospettiva di seguire la madre a Boston, di vedere una città di cui aveva solo uno sbiadito ricordo e di cui aveva sentito cantare le lodi così spesso. Ma i suoi sogni erano destinati a infrangersi molto presto.
- E Sabrina? - le chiese il capitano, fissandola negli occhi come se volesse penetrare i suoi pensieri.
Era chiaro che temeva di perdere in un sol colpo moglie e figlia e, in effetti, Marie si era posta lo stesso dilemma durante la preparazione del pranzo. La donna aveva fantasticato di portarla con sé e stabilirsi di nuovo in quella splendida città. Ma sentiva che, se avesse ceduto alla tentazione, non sarebbe più stata in grado di tornare. Aveva bisogno di un qualcosa che la obbligasse, che le ricordasse che ormai la sua vita era nell'Ovest e che le impedisse di tradire il marito e i due figli che la guardavano troppo spesso con la delusione dipinta negli occhi. No, non poteva andarsene con la figlia e spezzare quel legame con la sua famiglia, che si era indebolito proprio a causa della sua decisione di non vivere più al forte. Doveva essere fedele al suo matrimonio e l'azione sconsiderata della figlia, per quanto l'avesse sconvolta, in fondo le aveva suggerito una soluzione.
- Sabrina andrà a Saint Louis - rispose decisa.
La ragazzina sentì un nodo improvviso allo stomaco. Sua madre non poteva farle questo: altro che dimenticarsi di rimproverarla, la stava condannando alla peggiore punizione che potesse immaginare! Saint Louis era la minaccia tanto sbraitata nei momenti di maggior collera, ma non aveva mai pensato che potesse parlare sul serio.
- Perché Saint Louis? Cos'è questa storia? - domandò il marito sempre più nervoso, soprattutto notando l'espressione di terrore che si era dipinta sul viso della figlia.
- Mi hanno detto che lì c'è un'ottima scuola femminile, molto severa, e penso che sia necessario che nostra figlia la frequenti visto il suo comportamento - pronunciò decisa a non farsi intimidire dalle eventuali proteste.
- È un convento! Non è una scuola! Ci sono le suore e le ragazze che vogliono diventare come loro! - gridò Sabrina, saltando in piedi.
- Siediti e fai silenzio - le intimò freddamente la madre.
- No! Non mi ci chiuderete in un convento! Se lo fate, mi ammazzo con le forbici del cucito! - urlò scoppiando a piangere e poi corse di sopra.
Un silenzio imbarazzato era piombato nella sala. L'eco dei passi della ragazzina si era spento e i due coniugi si fissavano con astio. John era furioso: come si permetteva la moglie di prendere una decisione tanto grave senza interpellarlo? Poteva anche andare da sua madre se necessario, ma non avrebbe rinchiuso la figlia in un collegio senza il suo consenso. Marie dal canto suo sosteneva lo sguardo del marito cercando di convincersi che stava compiendo la scelta migliore e che l'educazione della ragazzina era una sua prerogativa. Non doveva essere debole.
Robert e Jonathan si scambiarono un'occhiata d'intesa e scivolarono via in silenzio, lasciando i genitori soli.
John era un uomo razionale e severo, ma lo sguardo terrorizzato della figlia al solo nominare l'eventualità del collegio l'aveva toccato.
- Non ti permetterò di chiudere Sabrina in un convento solo per soddisfare la tua voglia di tornare a Boston - pronunciò freddo.
Marie ammutolì, quindi il marito aveva intuito i suoi sogni più segreti? Arrossì di collera nel sentirsi rivolgere un'accusa tanto meschina.
- Non è un convento, non essere ridicolo - cercò di giustificarsi. - Cosa credi? Che voglia tornarmene a casa e che sia tutta una farsa? Come puoi pensare una cosa del genere? Sarà solo per un breve periodo. È un viaggio lungo e faticoso, e Sabrina non si merita di passare l'estate con un premio visto come si comporta. Non hai visto come ha appena osato gridarmi contro? E quel ragazzino? -
- Mi sembra comunque una punizione alquanto severa. -
Marie allungò una mano all'altro lato del tavolo per accarezzare quella del marito che stringeva il tovagliolo tra il pugno chiuso. Voleva cercare di rabbonirlo e dissuaderlo dall'imporre la sua autorità di capo famiglia.
- John, fidati di me... È l'unica soluzione possibile. Non so più cosa fare con quella ragazzina: tutti i miei sforzi per educarla non sono serviti a nulla, visto il risultato. Tu non sai quante volte sono stata chiamata a colloquio con il suo maestro di scuola quest'anno. E non perché sia poco diligente negli studi! Ma in quanto a comportarsi come conviene a una signorina è un vero disastro... È così umiliante... E poi si tratta di un breve periodo: quando tornerò da Boston le permetterò di venire a casa e sono sicura che non si azzarderà mai più a comportarsi in modo tanto sconveniente. -
Marie cercava di convincere il marito, ma non si aspettava che l'uomo fosse così contrario alla sua scelta.
- Non ti permetterò di farle questo: Sabrina starà con me fino al tuo ritorno, vedrai che non oserà disobbedire a suo padre. -
La donna inorridì. Era già successo anni prima: il capitano era venuto a casa e se n'era tornato al forte con i due figli maschi, accusandola di non saperli gestire.
- Non voglio che stia al forte. Deve diventare una signora, non crescere circondata da uomini rozzi - balbettò.
- Sarà solo per un breve periodo, non l'hai detto tu forse? - ribatté il marito, con sarcasmo malcelato.
Era in trappola...
Capitolò, abbassando lo sguardo ed evitando di aggiungere altro. Spettava al marito il diritto di decidere per la figlia. Non vi erano scuse né possibili rifiuti: Sabrina sarebbe andata a vivere con suo padre e non avrebbe potuto far nulla per impedirlo.
Francesca Prandina
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