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Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Scrittori si nasce. Siamo operai della parola, oratori, arringatori di folle, tribuni dalla parlantina sciolta, con impresso nel DNA il dono della chiacchiera e la capacità di assumere le vesti di ignoti raccontastorie, sbucati misteriosamente dalla foresta. Siamo figli della dialettica, fratelli dell'ignoto, noi siamo gli agricoltori delle favole antiche e seminiamo di sogni l'altopiano della fantasia.
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Writer Officina
Autore: Antoine Alain Gioè
Titolo: Quel giorno non fu come gli altri
Genere Narrativa
Lettori 3487 30 60
Quel giorno non fu come gli altri
Mio nonno paterno discendeva da una famiglia siciliana che era emigrata verso la Tunisia. Era nato nel 1905 a Sousse, la terza città più grande e con uno dei principali porti del paese, a centocinquanta chilometri a sud della capitale Tunisi.
Nel mille e ottocento molti siciliani si installarono in Tunisia, creando delle vere e proprie colonie qualificate come stravaganti dai locali.
I mutamenti economici e politici sopraggiunti a partire dall'inizio del diciannovesimo secolo nel paese della riva sud del Mediterraneo, provocarono una movimentazione di merci e capitali, e conseguentemente di persone, provenienti dall'Europa verso questo paese del nord Africa.
Tra il 1830 e il 1860 la presenza italiana consisteva di poche migliaia d'individui. Per la maggior parte si trattava di attivisti politici, d'intellettuali, impegnati in lotte politiche scaturite dalla diffusione del messaggio rivoluzionario proprio del Risorgimento. Questi trovarono in Tunisia principalmente un rifugio.
Dopo la metà del secolo, si impose di fatto una comunità d'italiani soprannominati “i cinesi d'Europa”. La colonia si organizzò e strutturò divenendo la più importante tra quelle composte dagli altri immigrati europei.
Dopo il 1880, la popolazione proveniente dall'Italia meridionale, e soprattutto dalla Sicilia, continuò a crescere con l'arrivo di disoccupati e persone senza particolari qualifiche, attirate dal lavoro generato dai grandi investimenti delle imprese francesi dopo che la Francia ebbe stabilito il suo protettorato sulla Tunisia nel 1881.

Anche il mio bisnonno faceva parte di questi disoccupati senza qualifiche, che sbarcarono in Tunisia all'alba del ventesimo secolo alla ricerca dell'Eldorado. Con lui aveva attraversato lo Stretto di Sicilia anche la sua giovane moglie.
Molti di questi espatriati non erano mai usciti prima dal loro villaggio in Italia e quindi, ritrovandosi in terra straniera, avevano avvertito la necessità di raggrupparsi sulla base della loro forte coscienza nazionale italiana, che portò alla creazione di vere città nelle città, abitate da soli compaesani.
Inoltre, a coloro che provenivano dalla Sicilia, quella terra così simile a quella di origine, e così vicina geograficamente, dava l'impressione di essere la loro casa naturale.
A Sousse un gran numero di siciliani, provenienti anche dalle isole minori, aveva occupato un intero quartiere di fronte al porto, che battezzò Capaci Piccolo, dal nome del paese di Capaci, in provincia di Palermo. Avevano dato alle strade i nomi di città italiane come Roma, Messina, Trapani, o di eroi italiani come Garibaldi, che qualche decennio prima era riuscito nell'impresa di riunificare la penisola sotto il Regno d'Italia. Tutte queste strade erano perpendicolari al Boulevard Loubet, dal nome del presidente francese all'epoca dell'entrata nel ventesimo secolo.
Ovviamente, dopo una generazione, il numero dei componenti di queste famiglie era cresciuto in maniera esponenziale. Conducevano una vita del tutto in linea con quella dei loro avi, stessa religione, stessa cucina, stessa educazione, in generale conservavano gelosamente gli usi e costumi del paese d'origine, comprese le stesse credenze e superstizioni. Inoltre, ogni nucleo familiare aveva ancora parenti e amici rimasti in patria, e quando possibile tornavano a fargli visita. Questo gli permetteva di tenere saldi i legami.
Negli anni Trenta del ventesimo secolo, lo scrittore francotunisino Charles Félix Monchicourt, riferendosi agli immigrati italiani in Tunisia, affermò che era: - ammissibile per ogni italiano svolgere tutto il ciclo della propria vita civile, dalla sua nascita alla sua morte, senza uscire dal contesto italiano [...] senza limiti di tempo, la sua discendenza resterà italiana. -
L'amministrazione del protettorato semplificò le procedure per l'acquisizione della nazionalità francese per coloro che risiedevano in Tunisia. Il tema allettante delle naturalizzazioni implicava una serie di vantaggi economici propri del colonizzatore francese e costituì un argomento importante per le controversie fra gli italiani residenti che optarono per il cambio di cittadinanza e coloro che, invece, scelsero di restare di nazionalità italiana. Comunque, più di millecinquecento italiani scelsero di naturalizzarsi francesi. Questi ultimi furono ritenuti dei traditori da parte del resto della comunità che restava di parte nella disputa tra la Repubblica Francese ed il Regno d'Italia sulla dominazione in Tunisia.
I traditori della patria furono aggettivati con l'appellativo di “carne venduta”. Questi ultimi conservarono comunque tutta una parte dei valori, delle tradizioni tipiche italiane, ma in una maniera che potremmo definire ibrida, dovendo, per forza di cose, adattarsi anche allo stile di vita francese e tunisino.
Uno degli aspetti che evolse per primo fu il linguaggio. I loro dialetti di origine si trasformarono ed accolsero tu ta una serie di termini provenienti dalle lingue con le quali convivevano quotidianamente: il francese, l'arabo tunisino e anche l'ebraico, essendo molto significativa la presenza di ebrei in quelle terre a quell'epoca.
Questa lingua orale chiamata siculotunisino è ancora in uso tra gli anziani, e anche se molti di loro, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, rientrarono in Italia o si spostarono in Francia, continuarono ad utilizzarlo come principale mezzo comunicativo tra di loro.
Questo dialetto ha caratterizzato la mia infanzia. Nonni, genitori e zii hanno sempre continuato a usarlo tra di loro, e per questo lo comprendo abbastanza ma non sono in grado di parlarlo. Temo che questa lingua si estinguerà insieme alla loro generazione.
Anche se gli italiani residenti in Tunisia non avevano sempre condiviso gli interessi del colonizzatore francese, la neonata Repubblica Tunisina, in cerca della sua propria identità nazionale, non gli riservò alcuno spazio e li costrinse a lasciare il paese dopo la sua liberazione dal giogo francese il venti marzo del 1956.
Dopo il rimpatrio in Francia e in Italia, la storia si dimenticò di queste donne e di questi uomini.
Io, che ne discendo, voglio ricordarli.
Come ogni sera d'estate, dopo la cena, avevamo l'abitudine di riunirci tutti nel salone per ascoltare mio nonno raccontare delle storie sulla sua vita passata che sembravano risorgere dalla profondità delle sue rughe piene di saggezza.
Eravamo autorizzati a restare svegli fino a tardi in quanto i miei fratelli, mia sorella ed io eravamo in vacanza. Occupavamo sempre gli stessi posti, raggomitolati gli uni sugli altri perché a volte quelle storie ci spaventavano. Ascoltando mio nonno parlare, i nostri sguardi fissavano sempre una fotografia in bianco e nero appesa al muro dietro di lui. La creatura mistica, ritratta nella fotografia ingiallita dal tempo, sembrava scrutarci da un passato ancora più profondo delle rughe del mio avo. Questa effige ci faceva rabbrividire e allo stesso tempo ci incuteva rispetto in quanto, quello stesso ritratto, si trovava in ognuno degli appartamenti della nostra grande famiglia immigrata in Francia. Fino a quel momento nessuno di noi aveva osato porre domande per scoprire chi fosse la persona immortalata in quella fotografia.
Quella sera mi lanciai:
- Nonno, chi è quella persona nella foto appesa alle tue spalle? -
Egli mi guardò, si voltò, pose per un istante il suo sguardo sul ritratto, poi si rivolse verso di noi. I suoi occhi erano cambiati, erano umidi.

Ci parlò, quella sera, di una storia successa un giorno che non era stato come gli altri.
MERCOLEDÌ 6 MAGGIO 1953
Maria pose le sue mani bianche e venose sulla pesante porta di legno di quercia e spinse con forza, si aprì a metà. Scrutò quella grande stanza ricavata in quelle che erano state le stalle.
Maria aveva il viso ovale e una pelle come porcellana senza rughe apparenti, eppure si avvicinava alla cinquantina, una “certa età” negli anni cinquanta. Portava i suoi capelli, ormai brizzolati, sempre raccolti in un piccolo chignon alla base della nuca. La perdita di suo marito l'aveva molto rattristata e da buona siciliana vestiva sempre di nero, perché questo colore era l'unico ammesso nel guardaroba di una vedova fino alla fine dei suoi giorni.
La vecchia stalla era stata trasformata e arredata in modo che ogni abitante della casa potesse utilizzarla per dedicarsi alle proprie occupazioni. Maria per cucire, Piera, la penultima dei suoi figli, per dipingere, Giuseppina, la più giovane, per l'arte floreale che amava tanto. In questa stanza aleggiava un odore gradevole ma strano, l'effluvio degli acquerelli misto al profumo dei fiori creava una combinazione alquanto sorprendente. Delle tele adornavano l'ambiente, alcune raffiguranti dei paesaggi, altri degli animali un po' enigmatici e altre, ancora incompiute, attendevano poggiate al suolo.
Piera era una giovane e bella ragazza, seria ma alquanto vanitosa, i suoi lunghi capelli color ebano, che lei lasciava cadere sulle spalle, e i suoi occhi di un nero profondo, attiravano già gli sguardi ammirati dei giovanotti. Inoltre, il suo entusiasmo e la sua vivacità le facevano guadagnare il consenso e la simpatia delle altre ragazze.
Sua sorella Giuseppina era invece più timida e meno vivace, ma non meno graziosa. I suoi capelli di un bruno dorato le donavano un'espressione giocosa e dolce, la sua pelle quasi trasparente le conferiva un aspetto di fragilità. Per questo Giuseppina preferiva, alle uscite rumorose di sua sorella, passare la serata a fantasticare seduta davanti casa col suo gatto Nio sulle ginocchia e con gli occhi profondi come il mare persi nel cielo stellato.
Ceste di vimini erano accatastate in un angolo della grande stanza quasi a creare un'assurda scultura impressionista, con dei fiori essiccati di differenti colori messi un po' a casaccio davanti ad un dipinto di Piera. Troneggiava nella stanza un vecchio modello di macchina da cucire a pedale in ghisa, incorporato in un tavolino dipinto di verde. La macchina aveva decori dorati a forma di sfinge.
Quando il sole si faceva inghiottire dalla collina di fronte casa, Maria e le sue figlie venivano spesso in questa stanza laboratorio per dedicarsi ai loro passatempi preferiti. Queste formavano un insieme omogeneo di creatività. Maria, facendo zigzagare l'ago della sua macchina, rammendava la manica della camicetta di sua figlia, strappatasi durante una passeggiata, e intanto sbirciava per scoprire a che punto fosse il ritratto di Giuseppina che posava per Piera. Era un luogo traboccante d'immaginazione.
Quel giorno Maria fece il giro della stanza, ne ispezionò ogni centimetro. Bisognava che la sala fosse il riflesso di quello che lei rappresentava: la pulizia. Quel pomeriggio sarebbero venute le donne per aiutarla a confezionare l'abito da sposa di un'altra delle sue figlie, Matilde, in quanto il giorno delle nozze era molto vicino.
Ebbene sì, Maria aveva fondato una bella tribù.
Quattro figlie: Gianna, sposata con Michele, Matilde la futura sposa, promessa a Salvatore, Piera e Giuseppina.
Quattro figli: Leonardo il primogenito già sposato, Filippo che aveva deciso di vivere in Italia con la sua famiglia, Giuseppe ancora celibe e Bastiano, anche lui già ammogliato
Antoine Alain Gioè
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