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Erri De Luca. Nato a Napoli nel 1950, ha scritto narrativa, teatro, traduzioni, poesia. Il nome, Erri, è la versione italiana di Harry, il nome dello zio. Il suo primo romanzo, “Non ora, non qui”, è stato pubblicato in Italia nel 1989. I suoi libri sono stati tradotti in oltre 30 lingue. Autodidatta in inglese, francese, swahili, russo, yiddish e ebraico antico, ha tradotto con metodo letterale alcune parti dell’Antico Testamento. Vive nella campagna romana dove ha piantato e continua a piantare alberi. Il suo ultimo libro è "A grandezza naturale", edito da Feltrinelli.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) ha raggiunto la fama con i romanzi che hanno come protagonista il commissario Ricciardi, attivo nella Napoli degli anni Trenta. Su questo personaggio si incentrano Il senso del dolore, La condanna del sangue, Il posto di ognuno, Il giorno dei morti, Per mano mia, Vipera (Premio Viareggio, Premio Camaiore), In fondo al tuo cuore, Anime di vetro, Serenata senza nome, Rondini d'inverno, Il purgatorio dell'angelo e Il pianto dell'alba (tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero).
Lisa Ginzburg, figlia di Carlo Ginzburg e Anna Rossi-Doria, si è laureata in Filosofia presso la Sapienza di Roma e perfezionata alla Normale di Pisa. Nipote d'arte, tra i suoi lavori come traduttrice emerge L'imperatore Giuliano e l'arte della scrittura di Alexandre Kojève, e Pene d'amor perdute di William Shakespeare. Ha collaborato a giornali e riviste quali "Il Messaggero" e "Domus". Ha curato, con Cesare Garboli È difficile parlare di sé, conversazione a più voci condotta da Marino Sinibaldi. Il suo ultimo libro è Cara pace ed è tra i 12 finalisti del Premio Strega 2021.
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Writer Officina
Autore: Elide Ceragioli
Titolo: La morte non ha i trampoli
Genere Giallo Poliziesco
Lettori 3740 37 64
La morte non ha i trampoli
Il maresciallo Amato posò i piedi nudi per terra e rabbrividì al contatto con l'impiantito gelato. La sveglia trillava con insistenza, ma le passò accanto senza toccarla. Si lavò e si vestì, poi si fermò a guardare il suo profilo nel grande specchio vecchio stile. La camicia era tesa sulla pancia e pareva che i bottoni stessero per saltare. Agata sicuramente lo avrebbe rimproverato: “Sei un maresciallo! Datti un tono!”
Gli parve di sentire la sua voce astiosa risuonargli nelle orecchie con un realismo che lo portò a voltarsi. Era solo, e oltre i vetri della finestra non si vedeva altro che il lattiginoso respiro del fiume, che i raggi del sole invernale non riuscivano a frangere.
“Merda di paese. Proprio qui mi dovevano mandare?!” borbottò.
Era stata Agata a spingerlo a chiedere un trasferimento che avrebbe dovuto essere temporaneo. Era successo solo qualche mese prima, eppure gli pareva fosse passato un secolo. Lo aveva aspettato sulla porta, come non faceva da anni, al rientro da una delle sue missioni e freddamente, con voce dura, evitando di guardarlo, gli aveva detto: “Ho bisogno di riflettere sulla nostra relazione. Ti sei accorto anche tu che fra noi ci sono problemi e da anni ormai! Mi serve tranquillità per poter pensare con serenità a me... a noi due. Devi lasciarmi sola per il tempo necessario a decidere come andare avanti.” Il suo era un ordine e Antonio, anche se non capiva, non era riuscito a replicare nulla di sensato. Avrebbero finito per litigare alzando la voce in toni sempre più accesi e astiosi fino a quando lei avrebbe sbattuto la porta e se ne sarebbe andata da un'amica o da sua madre o da chissà chi. Toccava sempre a lui piegarsi a chiederle scusa, implorando umilmente il suo ritorno e concedendole una resa totale.
Era successo tante volte e si sentiva stanco e impotente, così aveva obbedito, come sempre, e inviato i moduli. L'unico posto disponibile era in provincia di Firenze, e si era rassegnato a fare le valigie per la Toscana. Era stato semplice, più di quello che aveva immaginato e altrettanto doloroso.
Scese le scale alle 8:00 in punto; l'appuntato Jevolo lo accolse davanti all'ufficio con un bel sorriso e il brio tipico di chi ha passato una bella notte, aveva in mano una tazzina di caffè e gliela porse.
“Maresciallo buongiorno, mi sono permesso di portarle anche una sfoglia alla crema.”
Amato rifiutò e il giovane, con un moto di disappunto e francamente a disagio, infilò il dolce nel sacchetto e rispose: “A disposizione. Ho messo le pratiche sul suo tavolo.”
Amato approvò con la testa e si diresse, rassegnato, verso l'antiquata scrivania. Sfogliava e firmava senza leggere, così la sua mente era libera di andarsene lontano, in Calabria, dove Agata stava decidendo se la pausa di riflessione dovesse trasformarsi in una separazione definitiva oppure no.
Si guardò le grosse mani, eredità di una genia di contadini, e gli parve di poterla stringere al collo. L'amava, eppure, se fosse stata accanto a lui, l'avrebbe strozzata.
Lo squillo del telefono interruppe i suoi pensieri, riportandolo alla realtà del suo lavoro. Sollevò il ricevitore.
“Qui centrale. Segnalato corpo nel Bisenzio, altezza passerella San Piero a Ponti. Già allertati Vigili del Fuoco e autorità giudiziaria.”
Aggrottò la fronte faticando a capire il senso delle parole che sentiva e rispose meccanicamente: “Ricevuto. Ci rechiamo immediatamente sul posto.”
Jevolo lo guardò interrogativo e lui comunicò: “Dobbiamo andare... Hanno trovato un morto. Mi mandi Raggi e Catola.”
I due appuntati arrivarono contemporaneamente entrando dalla porta sul retro.
La caserma era una costruzione vecchia, costruita al tempo del fascismo: un'architettura studiata apposta per dare l'impressione di una solidità, che in effetti non aveva. La porta che si affacciava sul piazzale dove parcheggiavano le auto personali e di servizio, era di fragile legno, e Antonio dubitava che avrebbe resistito ad uno scassinatore alle prime armi, figurarsi a qualcuno più esperto, caso mai avesse voluto tentare il colpo.
Immaginò i titoli sui giornali: - Furto in caserma! La polizia indaga! - . L'articolo avrebbe arricchito il repertorio delle barzellette sui carabinieri, pensò, ma aveva il morale a terra e non aveva voglia di ridere.
Catola era il più anziano del gruppo, l'unico toscano, per giunta livornese e pertanto pronto a far battutacce su ogni cosa, gli indicò ridacchiando il breve tragitto fino alle scale di cemento che portavano all'argine. “Maresciallo, le hanno portato il caso a domicilio!”
Amato lo guardò accigliato e rispose con un'alzata di spalle. Significava chiaramente che ne avrebbe fatto volentieri a meno, ma cominciò a salire con passo deciso. Si sentiva un condannato costretto al patibolo del lavoro, vincolato dal senso del dovere e non più dalla passione.
Una piccola folla di curiosi, per lo più anziani imbacuccati per ripararsi dal freddo pungente, si era già assiepata sulla passerella e i carabinieri tentarono blandamente di farli spostare. Allo spettacolo, evidentemente già di per sé interessante, si unì la sirena che annunciava l'arrivo dei pompieri e qualcuno commentò saggiamente: “Vedrete che di lì non passa, ci sono troppe macchine parcheggiate. Dovrebbero tornare indietro e imboccare via XIII Martiri. Oh diteglielo!”
Nessuno però si mosse e il camion cominciò una faticosa manovra fra le auto.
Amato, mentre scendeva la riva fangosa, pensò alle scarpe lucide che si sarebbero inzaccherate, al fetore che gli avrebbe tormentato le narici per molte ore e infine al verbale che avrebbero scritto: - Alle 9:03, recatisi in loco, constatavano la presenza di persona seminuda, in evidente stato di morte. La suddetta salma era incastrata fra le erbacce e i rovi della riva destra del Bisenzio, se stiamo con le spalle a monte, riva sinistra se ci mettiamo con le spalle a valle. (Per dovere di precisione). Al momento non è deducibile se essa (o ella?) si sia volontariamente gettata procurandosi la morte o se la morte gliela avesse procurata altri (o altrui?)... -
I dubbi della lingua, dopo venti anni di onorato servizio, lo tormentavano ancora. Si fermò e guardò il corpo di sfuggita. La donna sembrava abbastanza giovane e graziosa, riusciva però a vedere solo una parte del viso contratto nello spasimo della morte.
Provò pena per lei e sospirò addolorato per la sorte che le era capitata. Diede le disposizioni necessarie e aspettò che i vigili del fuoco, finalmente scesi dal camion, stendessero la rete di sicurezza.
La nebbiolina che si alzava dal fiume gli era penetrata nelle ossa, rabbrividì e pensò fra sé: “È inutile che provi a darmi un tono! Questo è un mestiere di merda, anche se io non so farne altri e, in fondo, non lo cambierei.”
Per un momento rivide Agata, elegante e un poco sussiegosa mentre lo sollecitava a fare il concorso in banca: “Con la tua laurea potresti diventare un funzionario e guadagneresti il triplo”.
Sì, avrebbe potuto, ma non voleva. Essere un carabiniere era il suo sogno fin da bambino. Voleva estirpare la malerba, lottare contro la 'ndrangheta che si era portata via tanti suoi amici, ma sua moglie (o avrebbe dovuto dire la sua ex?) non lo capiva o non lo condivideva.
“Attento maresciallo!”
Si era distratto e stava scivolando a rischio di cadere nel fango; per fortuna il capo dei vigili lo sostenne. Era un pugliese molto professionale, evidentemente abituato a trovarsi in situazioni difficili, che gli illustrò in breve quello che avrebbero fatto per recuperare il corpo dalla riva scoscesa, evitando che finisse in acqua.
Gli fece un'accurata spiegazione tecnica, per lui inutile e poco interessante, ma lo ascoltò con doverosa attenzione.
I colleghi della sezione scientifica arrivarono sgommando e posteggiarono il furgone ai piedi della scala, incuranti di bloccare il passaggio, poi salirono in fretta. Indossavano delle tute bianche, portavano valigette di metallo e mostravano un'efficienza e una competenza invidiabili. Qualcuno commentò a voce alta che somigliavano agli attori di un telefilm.
Antonio scosse la testa con disapprovazione, non gli piaceva quell'atteggiamento di professionalità esibita, ma salutò uno dei militi che conosceva di vista e poi si spostò per lasciarli lavorare.
Il loro compito, difficile e molto delicato, costituiva una base importante per le indagini. Raccoglievano indizi, prove, aiutavano a formulare ipotesi ed erano per necessità, molto meticolosi ed esperti.
Il maresciallo rimase ad osservarli per qualche minuto. Il lavoro investigativo lo appassionava ed era lo stimolo giusto per liberarlo dal suo stato abulico, sull'orlo della depressione in cui si trovava. Assurdamente rifletté che la donna era andata a morire vicino alla caserma proprio al momento più opportuno.
Anche i colleghi parevano elettrizzati, probabilmente era il primo vero e proprio fatto di cronaca di un certo interesse dai tempi dell'alluvione. Chi cazzo conosceva Sanpieroaponti detto SPAP? Frazione minuscola, divisa in quattro: dal fiume per un verso e dalla statale per l'altro e, per giunta, di competenza del comune di Campi Bisenzio da una parte e di quello di Signa dall'altra. Manco fosse una metropoli da un milione di abitanti. Sicuramente su Google-Maps sarebbe apparsa come un insignificante agglomerato di case, senza particolari punti di interesse.
Il maresciallo guardò con sufficienza il gruppo di curiosi che commentavano, affacciati alla spalletta del ponte, i movimenti dei tecnici, ovviamente dando consigli. Erano pensionati, nullafacenti che avevano come unico svago la partita a carte ad uno dei bar e che non nascondevano l'eccitazione per lo spettacolo imprevisto.
“Siete messi peggio che da noi in Calabria” pensò di sfuggita arrampicandosi a fatica sul ciglio erboso e riconquistando la sicurezza delle scale di pietra.
Catola parlava col collega e sentì che diceva: “Deh ‘na sega... com'è ridotta quella poveretta! Vien voglia di rigettare la colazione.”
Quando gli fu a fianco gli domandò: “Maresciallo, ci fermiamo a prenderci un caffè... oppure qualcosa di più forte? Mi sa che andranno avanti per un bel po' prima di portare via il corpo. È messo maluccio.”
Amato fece un cenno d'assenso con la testa: del resto l'umidità gli era entrata nelle ossa e agognava una bevanda calda.
Il bar era quasi vuoto, ma immediatamente si riempì di sfaccendati decisi a soddisfare la curiosità, strappando qualche informazione ai carabinieri.
Il barista pareva assorto a pulire il bancone, ma la sua faccia livida mostrava che, fino a poco prima, era stato a curiosare insieme agli altri.
Mentre portava la macchina in pressione esordì: “Poveretta... che dite maresciallo, è scivolata? Anche se, per come è messo il corpo, non mi sembra possibile. Una donna giovane che c'è andata a fare sull'argine con questo freddo, seminuda poi?”
Antonio Amato alzò le spalle sorseggiando il caffè. “Troppo presto per fare qualsiasi ipotesi... qualcuno di voi la conosceva?” Era una domanda inutile, ovviamente, perché la parte del viso della donna che si intravedeva in mezzo alla vegetazione era troppo piccola, ma provare non costava nulla.
Tutti risposero di no e il cerchio intorno ai tre carabinieri si allargò.
I presenti, col loro comportamento evitante, pareva dicessero: “Non tirateci dentro questa storia, noi non c'entriamo.”
In quello calabresi e toscani, alla fin fine, non erano diversi, facevano di tutto per non essere coinvolti. Un vigile del fuoco venne ad avvisare che gli uomini della scientifica avevano fatto i loro rilievi e il magistrato, arrivato da Firenze a tempo di record, aveva dato il nulla osta per la rimozione, quindi avevano imbracato il cadavere, lo avevano portato sull'argine e adesso stavano caricando la poveretta sul furgone della mortuaria.
Il maresciallo si rituffò di malavoglia nella nebbiolina umida, che il tiepido sole invernale non riusciva a diradare, e percorse frettolosamente le poche centinaia di metri fino alla caserma.
Qua e là c'era ancora qualcuno che commentava il fatto, ma il grosso della folla si era disperso quando avevano portato via il corpo.
Adesso arrivava il difficile. C'erano da trovare il nome della disgraziata donna, il colpevole e il movente della sua morte.
Chi era? Chi l'aveva uccisa? E perché?
L'esperienza, maturata in anni di professione, gli suggeriva, prima ancora di avere il referto del medico, che la morte non era stata accidentale.
Rimuginò le domande pigramente, senza sforzarsi troppo ed entrò in ufficio passando davanti ai colleghi. Si sedette alla scrivania e ordinò: “Raggi, controlli le denunce delle persone scomparse! Qualcuno si sarà accorto che la moglie, la figlia, la sorella o quel che era quella poveretta, manca da casa...”
“Obbedisco, maresciallo!” borbottò l'appuntato di malumore. Pensava che l'omicidio fosse avvenuto lontano e il fiume avesse fatto il portapacchi, trasportando il corpo, magari per chilometri, fino a quando si era malamente impigliato nella sterpaglia e che non toccasse a loro occuparsene, ma non protestò, rispettoso della gerarchia. Il maresciallo era arrivato da poco e l'appuntato non sapeva se poteva dire liberamente la sua opinione. Si tuffò nella banca-dati degli scomparsi e compilò la scheda: sesso, età presunta, ecc. Il collega, da buon livornese non aveva peli sulla lingua e lo sollecitò: “Deh, diamoci una mossa, deh! Abbiamo ricevuto parecchie telefonate mentre eravate fuori.”
“Non ti esaltare!” lo ammonì Raggi. “Il maresciallo non vuole rogne. Da quando è arrivato ha smaltito più pratiche di tutti i precedenti superiori messi insieme. Secondo me però non farà niente di più di quello che è obbligato! Non hai capito che si è fatto mandare qui per riposarsi?”
“Zitto!” intimò Jevolo. “Se ti sente sono guai! Magari l'hanno spedito fuori dalla Calabria perché dava fastidio a qualche capoclan.”
Raggi alzò le spalle dubbioso e replicò: “Boh... non mi pare il tipo, comunque qualche problema ce l'ha. È taciturno e sempre assorto nei suoi pensieri, chissà che cosa rimugina?! Non facciamoci sentire quando parliamo di lui.”
Il maresciallo Amato però non era più nel suo ufficio. Era salito in camera e stava pulendo le scarpe con l'esagerata puntigliosità che aveva sempre caratterizzato Agata e che lui, inconsapevolmente, riproduceva. Smise di lustrarle solo quando furono lucide al punto che pareva brillassero di luce propria.
Non riusciva a concentrarsi su quanto era accaduto. Ogni cosa, il ritrovamento del corpo, il probabile omicidio, le pratiche sul tavolo, gli pareva avvolta nella nebbia, sfocata e lontana dalla sua mente, occupata ossessivamente dal pensiero di Agata. La pausa di riflessione imposta da sua moglie aveva congelato i suoi sensi, rendendolo impermeabile ad ogni emozione e impedendogli di provare un vero interesse per il suo lavoro. Avrebbe potuto (e voluto!) ucciderla, senza che la maschera inespressiva del suo volto mutasse.
Prima di scendere si cambiò i pantaloni e la camicia, che avevano assorbito l'umidità dell'aria e parevano grondarne, ma questo non servì a smorzare la sensazione di freddo e per scaldarsi si passò più volte le mani sulle braccia scuotendole. L'appuntato lo guardò stupito e negli occhi gli comparve una lieve luce ironica, ma distolse lo sguardo e immediatamente gli comunicò: “Maresciallo, sono arrivate le foto della donna, purtroppo però non abbiamo riscontri sull'identità. Devo continuare nelle ricerche?”
“L'inchiesta non è nostra. Scriva il verbale e lo mandi al luogotenente Arnolfi a Campi e al capitano Sciani a Signa” rispose Amato, spostando le foto senza guardarle. Era palesemente irritato e deciso a non farsi coinvolgere, desideroso com'era di dedicare ogni energia a se stesso e alla relazione con Agata.
Tornò alle pratiche, tutta roba senza importanza, sfogliando di malavoglia i fogli dattiloscritti e si interruppe solo quando Raggi gli portò il rapporto. Era scritto nel modo che si aspettava: - A seguito di telefonata, ci recammo in loco. Rinvenimmo il cadavere di una donna morta non identificata, la quale morte non sappiamo se autoinferta o procuratale da altri o casuale per incidente occorsole mentre scendeva al fiume, forse per guardare i pesci o altro motivo al momento ignoto. Sul luogo, dopo il lavoro dei colleghi della scientifica, sono intervenute le preposte autorità che hanno disposto la rimozione della salma alias del cadavere che è stata portata alla medicina legale per gli esami autoptici del caso, come necessario. -
Amato guardò di sbieco Raggi e si domandò se era il caso di fargli togliere - alias cadavere - , poi decise di lasciar perdere. Firmò, prese le foto della donna e si accinse a metterle nel fascicolo. Era l'ultimo atto prima di dimenticarsene, cancellando dalla memoria ogni cosa che riguardasse quel caso di cui non intendeva occuparsi. Di questa decisione era assolutamente certo. Lo stato di abulia aveva prevalso sullo stimolo all'indagine affiorato per un breve momento alla sua coscienza. Agata, la separazione, il dolore, il gelo per la loro relazione interrotta, avevano bloccato la sua mente e gli impedivano di elaborare la benché minima ipotesi. E dire che l'attività investigativa era stata la sua passione e gli aveva meritato più di un encomio. Le foto erano stampate dal computer, in bianco e nero, su carta leggera, ma l'autore era un bravo professionista ed erano abbastanza nitide. Lo sguardo distratto fu ammaliato dal corpo scomposto e livido e, nonostante ostentasse una rigida indifferenza, perforò la sua coscienza.
Si concentrò sul viso: lineamenti distorti nello spasmo della morte, occhi stralunati e narici dilatate nella ricerca d'aria. Sicuramente era stata strangolata e forse sul collo erano rimaste tracce delle mani assassine. La donna somigliava ad Agata. Gli stessi capelli corvini, la stessa pelle bianca, di chi ama il rifugio protettivo delle mura domestiche più del sole. Le guardò le mani insudiciate di fango, le unghie corte ma curate. “Chi sei?” domandò mentalmente all'immagine, passando delicatamente i polpastrelli sui contorni del viso enfiato, sul quale la violenza dell'acqua e gli sterpi avevano inferto l'insulto di altre ferite, aride di sangue e sicuramente post-mortem, per dirla con il medico legale.
“Raggi!” chiamò.
“Comandi!” scattò l'appuntato.
“Venga qui con Jevolo” esitò, perché la decisione gli costava molta più fatica di quanto avesse immaginato, “studieremo questo caso.”
Raggi rispose: “Il collega è andato a comprare il pranzo.”
“Gli dica di portarmi un primo, ma che si sbrighi.”
Raggi uscì dalla stanza rapidamente e Amato tornò a studiare le foto una ad una, quasi che potessero rispondere alle sue domande e rivelare il nome dell'assassino. Appoggiò la schiena alla poltroncina e stese le gambe sotto la scrivania, incrociandole, così che le scarpe cogliessero un flebile raggio di sole e rispondessero con un luccichio. Doveva trovare l'assassino, conoscerlo, capire dove aveva preso il coraggio di fare quello che lui desiderava, ma non avrebbe mai osato. No, troppo amore per Agata, troppo desiderio nella sua carne, per il corpo morbido e caldo di sua moglie. Non sarebbe riuscito a farle del male.

***

Il luogotenente Arnolfi aveva letto il rapporto del maresciallo con pacato interesse e un lieve incresparsi delle labbra in un sorriso condiscendente. L'uso dei termini antiquati e le complesse circonlocuzioni gli scatenavano sempre un misto di ironia e di rabbia, anche se doveva ammettere a malincuore che non avrebbe saputo scriverlo meglio. Arnolfi selezionava i casi in due categorie: Carrierabili o Non Carrierabili, a seconda che lo potessero spingere o no in una progressione che era diventata, a quarant'anni, il suo principale obiettivo.
Rilesse attentamente, valutando vari fattori, non ultimo l'impatto mediatico. Il femminicidio andava di moda, ma non meritava la prima pagina e l'uxoricidio poi, dopo un primo annuncio nazionale, finiva sempre nella cronaca locale, solitamente in trafiletti di scarso impatto. Oramai le vittime venivano identificate con un numero ‘X' dall'inizio dell'anno e subito ci si dimenticava del nome della poveretta. Qualche psicologo avrebbe ipotizzato le ragioni del delitto in conflitti pregressi, o trovato pseudo giustificazioni nello stato emotivo del marito ecc. ecc. Cazzate! Risolvere il caso era facile al limite del banale. Sospirò domandandosi per quanto tempo avrebbe dovuto restarsene relegato in provincia, lontano dall'eccitante città, dove la mafia e le altre organizzazioni malavitose, sembravano coalizzate per spingere in avanti la carriera dei suoi colleghi, alcuni dei quali addirittura più giovani di lui, ma già con l'ufficio tappezzato di riconoscimenti al merito investigativo e in odore di promozione.
Strinse le labbra. Un morto, anzi, un ‘cadavere, alias salma', per usare i termini del rapporto, racchiudevano il miraggio di qualcosa di importante. Erano anni che in quello stupido comune di provincia non succedevano altro che furti, furti, furti e poi ancora furti nelle case. A goderne erano solo i falegnami, i fabbri e i muratori che dovevano riparare i danni, o i venditori di inutili e costosi sistemi di allarme. Identificare e arrestare gli autori era praticamente impossibile e troppo dispendioso. A lui non andava di impegnare i suoi uomini in bazzecole come recuperare qualche catenina d'oro o anelli di poco pregio. Caso mai ci fosse stata una banda organizzata, un personaggio della mala internazionale, non avrebbe lesinato l'impegno e magari sarebbe finito in prima pagina ottenendo la tanto agognata promozione.
Invece niente. Topi d'appartamento, maestri della spaccata, stronzi che meritavano di essere presi a calci nel sedere per un mese di seguito per i danni che facevano. Li avrebbe lasciati volentieri nelle mani dei derubati invece di assicurargli qualche settimana gratis di vitto e alloggio nel carcere di Sollicciano. Perché per loro la prigione era quello o, meglio ancora, un bel corso di aggiornamento in nuove tecniche di scasso, tenuto da colleghi esperti in quell'arte. Quando uscivano erano più bravi e più furbi di prima e avevano intessuto nuove amicizie e alleanze.
Posò i fogli, si levò gli occhiali che usava per correggere la lieve miopia e disse a se stesso che avrebbe lasciato ad Amato, il collega arrivato da poco dalla Calabria, il lavoro di sgrossatura. Se il caso meritava, ci sarebbe stato tempo per metterci impegno e soprattutto per prendersi il merito di averlo risolto. Sorrise apertamente al miraggio di una promozione che, alla luce di queste considerazioni, gli appariva a portata di mano.

***
Jevolo era tornato in caserma con due sacchetti di carta colmi e si era infilato nella piccola cucina. Raggi, che lo aveva immediatamente seguito per aiutarlo, sibilò al maresciallo un messaggio che conteneva una velata e oscura minaccia: “Salga anche lei... non c'è tempo da perdere.”
Amato si alzò, cedendo all'impulso della fame e alla curiosità, e gli andò dietro. Il cucinotto era una stanzetta arredata con un fornello e un tavolo sul quale lo sguardo del maresciallo rimase arpionato, incapace di staccarsi. Da ogni recipiente esalava il vapore odoroso delle pietanze che si stabilizzava come nuvola a mezz'aria. Aspirò le molecole di sapore tramutate nel respiro dei piatti, che avevano maggior potere e attrattiva dei ferormoni e che, inalate, gli penetrarono nei polmoni, nel sangue e nel cervello. Aprì la bocca, stupito, mentre Raggi descriveva il menù.
“Abbiamo fatto preparare qualcosa di caldo e leggero: trippa alla fiorentina con crostoni di pane, polenta e baccalà, tagliatelle al ragù di pecora con spezzatino a parte. Il vino ovviamente è un Chianti. C'era anche minestrone di fagioli, ma ci sembrava pesante... se vuole lo prendiamo domani.”
Mentre parlava aveva apparecchiato e accostato le sedie.
Il maresciallo inghiottì il profluvio di saliva che gli aveva riempito la bocca e, sedendosi si schernì: “Mi basta un assaggino...”. Difatti assaggiò tutto, incurante della camicia che andava tendendosi sempre più sul ventre. L'unica cosa che respinse fu il pensiero di sua moglie, bella e altera, che lo rimbrottava di abbuffarsi di cibo. Che cazzo! Tanto lei non c'era a vederlo e chissà se ci sarebbe stata più accanto a lui a criticarlo con voce tagliente.
Erano quasi alla fine del pasto quando il telefono li interruppe. Fu Jevolo a rispondere e a passargli l'apparecchio informandolo che il luogotenente lo cercava. Amato, assurdamente, aveva pensato fosse Agata, materia-lizzatasi per rimproverarlo e sospirò di sollievo. Si pulì le labbra e ruttò una zaffata mista di capperi e peperoncino, prima di presentarsi mettendosi inconsapevolmente sull'attenti, quasi che il collega potesse vederlo.
Arnolfi esordì subito con tono severo: “Non abbiamo ancora identificato la defunta, o dovrei dire morta nonché cadavere, come da vostro resoconto? Mi compiaccio con voi per la prontezza dell'intervento, ma non per la qualità del verbale. Mio figlio di sette anni avrebbe fatto di meglio. Iscriva i suoi uomini ad un corso di scrittura, ne hanno bisogno per non fare la figura degli analfabeti! Mi aggiorni costantemente. Il nostro è un piccolo comune. La gente vuol sentirsi protetta e nel Bisenzio vuole pescare pesci-siluro, non cadaveri.”
Amato si incupì; il collega aveva un atteggiamento palesemente ostile nei suoi confronti, e riusciva ad incrementare le sue paranoie. Chiuse la comunicazione e domandò: “Raggi, ha sentito il luogotenente? Non gli piace come redigiamo i rapporti. Beh, un po' di ragione ce l'ha. Vediamo di fare meglio le indagini... Il caffè lo preparo io. Di voi illetterati non mi fido!” ammiccò bonariamente poi indicò le scale, “E dopo subito al lavoro. Ah, dimenticavo. Il vostro peperoncino non picca... me lo faccio mandare dalla Calabria insieme a salamino e salsiccia fatta in casa e vi faccio sentire il fuoco sul palato... il nostro sì che fa scorrere il sangue nelle vene.”
I colleghi si guardarono stupiti del cambiamento che era avvenuto nel maresciallo. Sembrava che avesse acquisito una maggior vitalità e che si stesse scrollando di dosso la cappa cupa e triste che lo aveva imprigionato dal suo arrivo.
In effetti Antonio stava meglio. Era come se nella sua mente si fosse aperto uno spiraglio e riuscisse a vedere finalmente un poco di luce nel suo futuro, fino a quel momento cupo.
I due giorni successivi trascorsero rotolando inerti e inghiottendo sottili fettine della loro vita, lasciandosi dietro, in cambio, solo un labile ricordo. Le indagini erano proseguite, ma senza che si potesse rispondere alla domanda principe: - Chi è la donna morta? - .
Non avevano trovato riscontri fra gli scomparsi e, anche se i giornalisti facevano delle ipotesi sul cadavere (alias salma, alias defunta), nessuna aveva fondamento.
Amato si stava ambientando, rivelandosi persino spiritoso, come se l'umido e il freddo, che gli rendevano impacciati i movimenti, riuscissero al contrario a liberare il suo spirito acuto, svincolandolo da pastoie annose.
La Calabria gli appariva lontana, quasi appartenesse ad un'altra vita, sua moglie Agata manteneva un rigoroso silenzio, ma la sognava spesso. Fragile creatura dal collo delicato, così facile da spezzare. La strozzava ogni notte, mentre di giorno sentiva che la distanza fra loro rendeva più serena l'attesa, smorzava la rabbia, trascinava, come fa l'acqua del fiume, i rottami delle liti e le scorie di acredini sottovalutate, seppellite dalla consuetudine al perbenismo di facciata.
Mercoledì mattina Jevolo portò il solito caffè ustiona-palato e un foglio accuratamente piegato. Il maresciallo lo esortò ad entrare. “Che c'è? Vogliamo perder tempo, appuntato?”
“No, maresciallo. Ho stampato la mappa del territorio, caso mai servisse.”
Amato capì e ordinò burbero: “Faccia vedere!”
Sapeva che quel caso era una sorta di caccia al tesoro con scarsissime probabilità di riuscita, ma sicuramente appariva più interessante delle pratiche ingiallite che aveva in programma di esaminare. Jevolo indicò alcune linee: “Questo è il Bisenzio, dalla sorgente a San Piero. Questi sono i paesi che attraversa. Raggi ed io abbiamo scartato l'idea che il corpo della signora sia stato gettato in acqua a Vernio o a Vaiano: il tragitto è troppo lungo. A Prato gli argini sono ampi e luogo di passeggio per atleti e padroni di cani, sicuramente sarebbe stato visto e intercettato. Inoltre non risulta sia stata a lungo in acqua, gli abiti abbastanza sono ben conservati. È probabile che la donna sia stata gettata in un punto compreso da qui a qui.” Jevolo tracciò un segno di pochi centimetri sulla mappa e concluse: “Quindi, a rigor di logica, è nostro!”
Amato corrugò la fronte e rispose perplesso. “Crede che il luogotenente non abbia fatto la stessa ipotesi, avendo per di più a disposizione maggiori informazioni?”
Jevolo inarcò le sopracciglia assumendo l'aria dubbiosa di chi non vuole esprimere un parere, temendo di doversene assumere la responsabilità. Amato rilesse con attenzione il verbale ed esaminò a lungo le foto. La donna adesso gli parve una conoscente, un'amica addirittura, che gli lanciava un accorato messaggio: - Trova il mio assassino! - Carezzò con la punta delle dita i capelli aggrovigliati e gli parve perfino di percepirne la setosa consistenza, poi si concentrò sul collo, dove le mani avevano stretto con forza rabbiosa, fino a strapparle la vita. Riusciva senza sforzo ad immaginare i suoi deboli tentativi di difesa, la sua sete d'aria, la pressione del sangue che, impossibilitato a circolare liberamente, aveva spinto in fuori i bulbi oculari. Si passò il palmo della mano a piatto sulla fronte, per cacciare le immagini terribili che si erano formate nella sua mente e si concentrò su quanto gli stava spiegando il collega: “Potremmo consultare il referto per avere conferma della mia ipotesi.”
Amato ci pensò per qualche istante e poi concluse: “Probabilmente la nostra vittima è l'ennesimo caso di uxoricidio e dovremmo concentrarci su un marito o un amante geloso. Il 28° o 29° dall'inizio dell'anno mi pare. Non fa notizia, Arnolfi non ci metterà testa né cuore e sicuramente il capitano Sciani non approverà che noi ce ne occupiamo troppo a lungo. Secondo lui dovremmo dedicarci ai furti nelle case, così frequenti in questo periodo. Scoprire qualche topo d'appartamento ci farà guadagnare la simpatia della gente, molto più che trovare l'assassino di questa sconosciuta.”
Lo sguardo dell'appuntato si incupì, salutò e girò sui tacchi per tornare nel suo ufficio.
Da quando avevano rinvenuto la poveretta si era incaponito con l'idea di scoprire come e perché era morta. Non per finire in prima pagina o per la carriera, come avrebbe fatto il luogotenente, ma per una questione di umanità. Provava un sentimento di pena per lei sbocciato su una vaga familiarità. Gli era parso di conoscerla, forse l'aveva incontrata in qualche giro di ispezione, ai giardini pubblici o al supermercato, per questo desiderava che le fosse resa giustizia, sperava che il maresciallo avrebbe condiviso i suoi propositi e tornò in ufficio un po' deluso dall'atteggiamento palesemente disinteressato del suo superiore.
Elide Ceragioli
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